Modelli d’impresa: da grandi a piccoli…
Nell’articolo precedente abbiamo analizzato un approccio all’analisi d’insieme di un’azienda attraverso l’Architettura Enterprise.
Tale approccio ha ampiamente dimostrato la sua validità nei confronti delle grandi organizzazioni e per questo è stato adottato, ad esempio, dagli enti governativi USA e dalla UE, oltre che da diverse multinazionali.
Risulta però spesso “sovradimensionato” rispetto alla piccola e alla media impresa italiana, soprattutto per lo sforzo necessario alla sua realizzazione in una singola e specifica azienda.
In questo articolo vedremo dunque come applicare un approccio a una visione di insieme concettualmente simile, ma assai meno dispendioso nella sua realizzazione, anche in questi casi. L’obiettivo finale di questo processo di modellizzazione è individuare i punti di forza e di debolezza dell’azienda, per poi guidarla nell’applicazione il più proficua possibile della Digital Transformation.
Come opera l’azienda?
Ricordiamo che i processi sono le successioni temporali di attività (a loro volta composte da azioni elementari) e decisioni che fanno funzionare l’azienda (o sue componenti) e che integrano le diverse azioni messe in opera dalle differenti suddivisioni organizzative attraverso le quali l’azienda stessa è strutturata.
Alcuni di questi processi, come quello delle vendite, si attuano all’interno di una sola unità organizzativa aziendale (nello specifico l’ufficio vendite) mentre altri, di ordine più generale, contemplano l’azione di tante diverse unità organizzative per potersi svolgere.
Un esempio ne è il ciclo attivo, definito come l’insieme delle azioni che portano alla fatturazione di vendita, che comprende il magazzino, la produzione, l’ufficio tecnico, le vendite, l’amministrazione etc…
Una procedura, invece, è una descrizione dettagliata e standardizzata dell’attività da svolgere, comprese le indicazioni su come deve essere svolta, da chi e in quali circostanze. Normalmente una procedura è definita come parte di un processo, ovvero descrive nei vari dettagli una o più attività che fanno parte del processo.
I processi, inoltre, possono essere “espliciti”, ossia formalizzati attraverso appositi documenti che li descrivono ed eventualmente ne traducono i dettagli in procedure e istruzioni specifiche di lavoro (work instruction). La formalizzazione può servire per vari scopi, ad esempio la riproducibilità su più sedi operative con diverse persone, la riduzione dei tempi di addestramento etc. Tale pratica è quasi sempre indispensabile nel caso delle certificazioni, come per esempio quella relativa ai sistemi di gestione qualità associati alla normativa ISO 9001.
Per molte aziende, tuttavia – soprattutto per le più piccole – i processi esistono in forma “implicita”, ossia ci sono procedure, quasi sempre non scritte, che sono seguite dalle persone, ma esistono solo all’interno delle loro competenze personali e soggettive e sono di conseguenza “tramandate oralmente” ai nuovi assunti durante la fase di addestramento.
In alcuni casi, addirittura, le procedure implicite sono note solo ad una persona, che “sa come si svolge quello specifico lavoro”.
Accade così che quando la persona lascia l’azienda – se non viene predisposto un adeguato passaggio di consegne ben organizzato per “tramandare” le sue conoscenze a chi ne prende il posto – avviene una vera e propria perdita di conoscenza operativa per l’intera azienda, con la conseguente produzione di inefficienza e l’altrettanto conseguente necessità di “ricostruire” nel tempo tale conoscenza operativa da parte dei nuovi addetti al medesimo compito.
Allo stesso tempo, anche l’eccesso di rigidità nello svolgimento di procedure fisse – magari progettate non tenendo conto delle varianti possibili dei casi operativi del lavoro – può produrre un danno altrettanto grave per l’azienda.
I processi, infatti, sono svolti dalle persone attraverso l’uso di strumenti, come ad esempio le macchine industriali nella produzione e gli strumenti informatici nell’amministrazione.
La maggior parte dei processi, inoltre, non sono svolti da una singola persona, ma le varie attività che li compongono vengono svolte da più operatori e addetti. Nel caso poi dei processi più grandi – come il sopra citato ciclo attivo – i processi si compongono di differenti fasi (ulteriormente scomponibili in diverse attività), ciascuna delle quali viene svolta da una differente unità organizzativa (ufficio, dipartimento, reparto, divisone etc.). Le singole fasi o le diverse attività, infine, possono fare parte di più processi…
In altre parole, un’unità organizzativa può svolgere lo stesso compito (ovvero un insieme di attività) esattamente come una fase unitaria di processi diversi. A partire da queste premesse, analizziamo ora la suddivisione dell’azienda in unità organizzative.
L’organizzazione dell’azienda
L’azienda, soprattutto la PMI italiana, segue solitamente un modello “classico” di organizzazione aziendale, che assume nel corso del tempo attraverso la propria evoluzione a partire dalla fondazione.
Bisogna infatti ricordare che molte delle PMI sono nate come evoluzione di forme di “artigianato” durante il secondo dopoguerra. Non appena l’azienda – inizialmente composta di 4-5 persone – aumenta di dimensioni, diventa necessario predisporre un’adeguata suddivisione dei compiti di lavoro tra le varie persone. Esiste inoltre il caso in cui un’azienda formata da altre aziende ha in dote un’organizzazione e una suddivisione dei compiti pre-esistente fin dal suo avvio.
Tale suddivisione si realizza attraverso:
- la scomposizione (esplicita o implicita) dei processi aziendali in attività elementari e nel raggruppamento di queste ultime in compiti secondo un qualche criterio logico o tecnico. Un esempio di tale scomposizione fu la riorganizzazione “rivoluzionaria” svolta dall’azienda automobilistica Ford negli USA con l’adozione della catena di montaggio agli inizi del XX secolo;
- la definizione di ruoli e unità organizzative dentro all’azienda;
- l’assegnazione dei compiti alle unità organizzative, individuando quindi ruoli definiti all’interno dell’azienda. I compiti assegnati a un’unità organizzativa (che, nei casi più piccoli, può anche essere formata da una sola persona) costituiscono in questo caso le sue mansioni;
- l’assegnazione di una o più persone a ciascuna posizione, creando così le unità organizzative aziendali.
Il concetto di divisione del lavoro conduce al concetto di specializzazione. Seguendo il modello di Mintzberg, la specializzazione può essere di tipo orizzontale o verticale. Da questo punto di vista:
- esiste elevata specializzazione orizzontale quando all’unità organizzativa o alla singola persona sono assegnate poche attività e/o attività tra loro omogenee (più o meno complesse);
- esiste elevata specializzazione verticale quando l’unità organizzativa o la singola persona ha poca autonomia decisionale, tenendo presente che, di solito, la complessità delle attività assegnate tende a fare aumentare l’autonomia.
In questo modo si vengono a creare:
- unità organizzative e/o singoli ruoli ad alta specializzazione orizzontale e verticale (lavoro operativo); oggi spesso tali unità vengono generalmente indicate come operations;
- unità organizzative e/o singoli ruoli ad alta specializzazione orizzontale e bassa specializzazione verticale (lavoro professionale, ad esempio un addetto ai collaudi);
- unità organizzative e/o singoli ruoli a bassa specializzazione orizzontale ed alta specializzazione verticale (lavoro di supervisione, ad esempio, nel caso di azienda manifatturiera, un capo turno);
- unità organizzative e/o singoli ruoli a bassa specializzazione orizzontale e verticale (lavoro direttivo, ad esempio, un direttore di stabilimento).
Questa organizzazione viene formalizzata (o dovrebbe esserlo) attraverso un organigramma, ossia una rappresentazione (quasi sempre grafica) della struttura.
In figura (fonte: wikipedia) è rappresentato un organigramma nella forma più spesso usata.
L’azienda, dunque, risulta suddivisa nelle seguenti unità organizzative: acquisti, produzione, vendite, amministrazione e risorse umane. Queste, a loro volta, sono o ulteriormente suddivise in sotto-unità o composte direttamente da singole persone.
Ognuna di queste ha un Responsabile, che riceve direttive e obiettivi dalla Direzione generale e segnala ad essa l’andamento della propria sezione attraverso relazioni e rapporti. Nelle aziende più piccole la Direzione generale coincide spesso con la proprietà, magari anche con un singolo proprietario.
Ma il modello dell’organigramma in oggetto è adatto ad alcuni contesti mentre manca di alcuni aspetti fondamentali. Anche con le descrizioni dei ruoli, infatti, può non risultare immediato capire le interrelazioni che esistono fra le diverse unità organizzative, e nemmeno comprendere l’efficienza e l’efficacia nella realizzazione dei processi da parte delle unità organizzative, soprattutto a livello di azienda nel suo insieme.
Per questo motivo, nel procedere nell’argomentazione, ripartiamo dal concetto di architettura, alla ricerca di un nuovo tipo di modello.
Una nuova architettura per la PMI
Partiamo da uno strumento tra i più importanti definiti nel framework ITIL: il catalogo dei servizi.
In questo modello un servizio è un insieme di funzioni ben definite che un’unità (funzionale, tecnologica etc.) offre all’esterno.
Per ciascuna unità-servizio possono (e devono) essere definite unità di misura della erogazione delle funzionalità che formano il servizio stesso e che ne definiscono i livelli di servizio. Esempi di livelli di servizio possono essere:
- il tempo di presa in carico di un compito/incarico assegnato;
- il tempo di svolgimento del compito;
- la quantità di unità elementari di lavoro svolte nella unità di tempo (nel caso del reparto produzione di un’azienda manifatturiera possono essere i singoli componenti prodotti, nel caso di una pubblica amministrazione possono essere le pratiche svolte);
- il tempo di risposta a un quesito posto.
Con tale approccio, quindi, l’azienda esistente viene “scomposta” per identificare al suo interno le singole funzioni espletate dai reparti, che a loro volta diventano servizi business offerti ai diversi comparti aziendali o a componenti esterne all’azienda stessa (clienti, fornitori, pubblica amministrazione).
In questo modo all’interno dell’azienda troviamo i centri di servizio o le unità-servizio, ciascuna delle quali svolge un insieme specifico di funzioni che vengono fornite sia agli altri reparti/uffici che a entità esterne all’azienda.
Entro il singolo centro di servizio (o unità-servizio) – che per le aziende più piccole corrisponde direttamente ad una unità organizzativa – le persone che ne fanno parte, attraverso le loro attività, ne garantiscono il funzionamento.
Per ogni centro di servizio individuato deve essere nota la catena delle dipendenze in ingresso, ossia su quali altri centri di servizio esso si appoggia e da cui dipende. In tal modo risulta anche definita la catena delle dipendenze in uscita per un centro di servizio, ossia quali altri centri di servizio da esso dipendono.
I centri di servizio, così come i processi, possono essere suddivisi fra primari, ossia legati al core business dell’azienda (che è in sostanza l’attività principale dell’azienda verso i propri clienti, come, per esempio, la produzione di auto per una casa automobilistica) e secondari o ausiliari, ovvero necessari, ma non legati direttamente al core business.
Esempi di servizi primari sono tutti quelli della produzione e dell’ufficio tecnico, mentre esempi di servizi secondari sono la gestione finanze e la gestione del personale.
In questo modo, per ciascun centro di servizio diventa possibile sia determinare parametri di efficienza ed efficacia (ad esempio i tempi di risposta, il volume di pratiche svolte nell’unità di tempo) che individuare eventuali punti di miglioramento possibile.
Soprattutto, considerando il funzionamento interno della unità-servizio e comparandolo con gli scambi di informazioni e/o elementi materiali che si hanno con altri servizi nello svolgimento dei processi a livello di intera azienda, diventa possibile capire dove sono i punti di miglioria e quali strumenti di digital innovation possono rendere possibili tali migliorie. Il tutto guidati da parametri numerici, misurabili ed oggettivi.
Nella figura di seguito ne vediamo un esempio con riferimento all’organigramma precedente. Le unità organizzative di Amministrazione, Produzione, Vendite e Acquisti richiedono servizi al centro di servizio Risorse umane (in questo caso coincidente con l’unità amministrativa), e questo deve fornirle rispettando valori di parametri misurabili.
L’analisi esterna ed interna deve dare risposte a domande come:
- Quale è il ruolo dell’unità organizzativa/unità servizio sotto esame entro l’azienda (in altri termini a quali altre unità organizzative interne o a entità esterne come la pubblica amministrazione, i clienti e i fornitori essa offre funzionalità)?
- I parametri dei livelli di servizio sono sufficienti per questo ruolo o questo insieme di ruoli?
Se non lo sono:
- i problemi sorgono dalla “comunicazione” e dai flussi di informazioni associati che intercorrono fra questo centro di servizio e gli altri? Sono eventualmente localizzati ad un singolo caso?
- Come avvengono tali comunicazioni? Sono digitali? Sono tracciabili/tracciate e verificabili?
- I problemi sono comuni a tutte le comunicazioni e quindi probabilmente la loro origine è interna al centro di servizio?
- Come vengono svolte dalle persone le singole attività entro il centro di servizio? Come è strutturata l’organizzazione interna e la suddivisione del lavoro?
- Quali strumenti sono utilizzati entro il centro di servizio? Sono appropriati?
- L’inserimento di nuovi strumenti digitali potrebbe cambiare le cose? E quali strumenti sarebbero più utili? Che cambiamento organizzativo/di ruoli e formazione associata divengono necessari?
- Qualora i problemi dipendano da funzionalità fornite da altri centri di servizio, quali sono questi centri? E in tali centri si ripete l’analisi.
- Qual è il costo di tali centri? E’ conveniente o strategico mantenerli all’interno dell’azienda o organizzazione? O può essere preferibile esternalizzarli con un ben governato processo di outsourcing, ad esempio sotto forma di servizi acquistabili in cloud?
In tal modo divengono possibili anche scelte strategiche importanti. Nei prossimi anni, per sopravvivere, molte aziende italiane dovranno affrontare percorsi di trasformazione per aumentare l’efficienza e ridurre i costi. Un esempio è quanto avvenuto in alcuni distretti industriali, dove aziende diverse hanno condiviso servizi non facenti parte del core business, come i sistemi informativi.
La stessa cosa è avvenuta a livello di gruppi aziendali nati con acquisizioni nel corso del tempo. E analogamente è stato fatto da alcuni comuni che si sono raggruppati in consorzi, mettendo in comune fra loro i sistemi informativi e la polizia locale.
Uno dei nuovi standard di progettazione di sistemi informatici più o meno complessi, chiamato Architettura a Microservizi e seguito negli ultimi anni da aziende come Microsoft, IBM (e RedHat) e Oracle, segue esattamente questo principio. I microservizi sono insiemi di funzioni affidati ad elementi IT singoli, autoconsistenti, indipendenti dagli altri e a bassa complessità, la cui gestione può essere affidata a gruppi di lavoro ristretti.
Per completare la nostra visione della digital transformation come motore per l’aumento di efficienza ed efficacia, dunque, serve tornare all’analisi dei processi, tema che sarà affrontato nel prossimo articolo.
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