La rete oggi: il supporto alla interoperabilità sociale
Nell’articolo precedente è stato trattato come nei mesi della tragedia che ha colpito il mondo la rete sia stata un pilastro fondamentale nella comunicazione fra le persone e come stia evolvendo sempre più in tal senso. Dopo avere visto a livello sociale cosa questo stia iniziando a comportare, in questo articolo analizzeremo cosa effettivamente serve per rendere la rete anche robusta e sicura, in grado di reggere questo ruolo sociale.
L’Italia (o il mondo) “unica città digitale”
Durante la pandemia, abbiamo scoperto che, per un numero molto grande di lavori, non esiste realmente la necessità di essere presenti in un ufficio o in un’aula, magari in un grande palazzo di una grande città. Almeno non tutti i giorni.
E non esiste quindi per chi compie questi lavori la necessità reale di prendere un’auto (e magari stare 2 ore in coda in una tangenziale), di prendere un treno (e magari partire alle 5.30 per poter arrivare al posto di lavoro prima delle ore 9), di stare chiusi pigiati come sardine in un vagone della metropolitana di una grande città…
In tanti, non solo in Italia, hanno compiuto questo tipo di analisi e riflessioni. A Palermo è nato addirittura il movimento South Working, analizzato oggettivamente, fra gli altri, da Dario Di Vico, e in testate come il Sole 24 ore. La proposta è quella di riportare al Sud e nelle aree montane, oggi “periferiche”, lavoratori della conoscenza, anche giovani, attualmente impegnati nelle grandi città come Milano, attraverso l’uso dello Smart Working ben organizzato, come previsto anche dalla legge 81/2017 del 22/05/2017, che ha definito lo Smart Working nell’ordinamento italiano come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.
In molti casi il lavoro a distanza, che è stato necessario mettere in piedi in tempi ristrettissimi per affrontare l’emergenza, è abbastanza distante da questa definizione, anche se comunque rappresenta un passo in quella direzione. Quindi l’evoluzione, secondo le idee del South Working, potrebbe portare a rivitalizzare le piccole città ed i borghi che, collegati in modo capillare da una rete a larga banda, diventerebbero quartieri di un’unica città, grande come l’intera Italia. O grande come l’intera Europa.
È realizzabile questo scenario? Forse in parte, negli stessi articoli sopra citati sono state affrontate analisi in tal senso… Ed è auspicabile? Gli impatti sociali ed economici sono notevoli e anche non tutti positivi, come documentato anche dalla crisi di numerosi locali di ristorazione il cui business si fondava sulla pausa pranzo, soprattutto in luoghi come l’EUR a Roma. Molto probabilmente il futuro prossimo sarà un misto di lavoro in distanza ed in presenza, come del resto contenuto nella stessa definizione suddetta.
Lasciando da parte analisi sociali ed economiche ora ci concentriamo solo su quella tecnologica. La rete Internet, in Italia, è pronta?
La rete Internet: l’autostrada dell’informazione
La struttura della rete in Italia, come del resto anche in altri paesi, è basata su alcuni percorsi principali ad alta velocità (di solito realizzati fisicamente con insiemi di fibre ottiche), chiamati dorsali, che, paragonando Internet alla rete stradale, corrispondono alle grandi autostrade. Le dorsali appartengono ai grandi fornitori di servizio come TIM, Vodafone, Wind Tre, e si connettono le une alle altre e con le dorsali europee negli Internet Exchange Point (IXP).
Un IXP è, in sostanza, un casello in cui il traffico proveniente da una dorsale può dirigersi verso una o più delle altre dorsali collegate. Gli IXP presenti in Italia sono 11 ed il più grande (MIX, da Milan Exchange, chiamato spesso in gergo “Mega-MIX”) permette l’interconnessione di tutte le dorsali (e quindi di tutti i grandi provider) con tutte le altre ed è un osservatorio privilegiato per l’analisi del traffico in Italia. Oltre al MIX, anche da altri IXP è possibile il collegamento verso l’estero, ad esempio dall’IXP di Palermo.
Dalle dorsali, poi, ogni provider ha proprie infrastrutture che collegano alla dorsale le utenze finali (case, uffici, aziende, enti pubblici…), con capacità di trasmissione sempre più piccole, in modo analogo a come, usciti dalla rete autostradale, si entra in strade statali, provinciali, comunali durante il viaggio verso una casa in campagna. Dalla velocità di connessione tra il punto di accesso di casa o ufficio e la dorsale dipende la possibilità di usare o meno alcuni servizi come la video conferenza.
Le piattaforme cloud, che offrono tantissimi servizi (fra cui la video conferenza), sono basate su grandi centri di elaborazione dati, per la grande maggioranza situati in Europa del nord o in nord America. Per cui il poter usare tali servizi richiede che il flusso di dati che realizza la connessione fra due utenti che stanno collaborando attraverso di essi passi
- dalle loro sedi, attraverso l’infrastruttura di collegamento del provider sino alla dorsale,
- attraverso questa sino ad un IXP,
- dall’IXP nella rete internazionale,
- dalla rete internazionale sino alla rete di ingresso del fornitore di servizi cloud
- dalla rete di ingresso sino al centro elaborazione dati che fornisce il servizio cloud in uso
- e viceversa per il collegamento inverso.
Le problematiche che si sono manifestate
Le problematiche legate all’uso massiccio di servizi cloud come sopra descritto possono riassumersi nei seguenti punti:
- L’accesso alla rete è ancora poco capillare, come mostrato dalle mappe dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCom): in molte zone d’Italia (soprattutto al Sud, nelle campagne, in montagna ecc…) le connessioni sono a bassa velocità, basate su cavi telefonici (ADSL di prima generazione, pochi megabit al secondo se va bene) o su ponti radio non veloci;
- Anche in caso di connessione veloce, spesso, l’infrastruttura che la connette alla dorsale del provider non è in grado di sostenere tutto il traffico se tutti gli utenti usano la propria connessione a piena velocità (nella rete stradale questo è ciò che accadrebbe se un certo numero di strade statali, trafficate, confluisse di colpo in una strada appena più grande);
- Infine le dorsali stesse non sono tutte in grado di sostenere il traffico, come mostrato dai frequenti rallentamenti della rete avvenuti durante il lockdown.
In sostanza occorrono investimenti per realizzare una infrastruttura che sia in grado di fornire connettività ad alta velocità e robusta rispetto a guasti alla maggior parte del territorio italiano. Dopo anni di stasi iniziative come Open Fiber sembrano andare nella giusta direzione, seppure a rilento.
Non è realmente pensabile una Italia digitale senza un accesso veloce alla rete capillarmente diffuso.
Inoltre servono accordi (anche a livello europeo) con i grandi fornitori di servizi cloud. Occorre portare i data center del cloud anche nel territorio italiano, per ridurre il traffico sulle dorsali internazionali e di conseguenza la dipendenza da queste (non dimenticando anche gli effetti del recente decadimento dell’accordo Privacy Shield sulla regolamentazione dei flussi di dati tra Unione Europea e USA).
La rete e le infrastrutture critiche
La rete diventa quindi una infrastruttura critica, insieme agli altri servizi essenziali, definiti nella Direttiva Europea NIS, come “quelli necessari per il mantenimento di attività sociali e/o economiche fondamentali.”
Bastano poche riflessioni per comprendere che:
- sistemi di produzione e trasmissione dell’energia (centrali, elettrodotti, metanodotti, oleodotti…),
- sistemi di fornitura e distribuzione di acqua potabile (acquedotti, serbatoi di raccolta…),
- reti di trasporto (aeroporti, ferrovie, porti, strade e interporti),
- sistemi finanziari (banche, borsa, sistemi di pagamento elettronico…),
- sanità,
- servizi di sicurezza (polizia, esercito…),
- infrastrutture digitali (la rete sopra descritta…), motori di ricerca, servizi cloud e piattaforme di commercio elettronico
sono pilastri della società, il cui venir meno potrebbe provocare problemi catastrofici. E ciascuno degli elementi suddetti dipende ormai, per il proprio funzionamento, da grandi sistemi informatici.
Questi sistemi sono adeguatamente protetti da guasti accidentali ed attacchi informatici? Esiste la consapevolezza della necessità di protezione adeguata, a livello di chi prende le decisioni? La citata Direttiva NIS (recepita dalla legislazione italiana nel 2018), va sicuramente nella giusta direzione, documenti come le linee guida e le Misure Minime di AgID (Agenzia per l’Italia Digitale) o il CyberSecurityFramework italiano definiscono tutti i dettagli per realizzare protezioni di alta qualità.
Ma, all’interno della pubblica amministrazione e anche di molte aziende, ci sono le competenze necessarie a tradurre in pratica tali dettagli? Ci sono i fondi? C’è una volontà di agire e di investire il necessario da parte di chi può prendere le decisioni?
Casi come il recente attacco all’ENAC (Ente Nazionale Aviazione Civile) lasciano dubbi su quanto si sia ancora lontani dalla reale attuazione delle protezioni richieste dalla NIS per le infrastrutture critiche.
Con una metafora storica potremmo dire che come la “pax mongolica” dovuta alle conquiste dell’impero mongolo lungo la via della seta portò ad un fiorire dei commerci e delle comunicazioni (è l’epoca descritta dal mercante veneziano Marco Polo nel Milione) sotto la protezione delle armi dell’esercito mongolo, così oggi, per garantire i nostri servizi essenziali, le nostre comunicazioni, la nostra “interoperabilità sociale” dobbiamo proteggere i nostri sistemi informatici e le grandi autostrade della comunicazione digitale con le opportune armi cibernetiche di difesa.
L’evoluzione: infrastrutture private o pubbliche?
Una considerazione importante su cui riflettere è il fatto che tutti (o quasi) i componenti della rete sopra descritti sono privati. Infatti, tranne che nei rari casi di reti civiche con servizi di connettività per il cittadino, dalla propria connessione domestica, sino al cloud, tutti gli elementi sono privati…
In sostanza, un elemento indispensabile per la nostra vita e per la nostra società è in mani di più operatori privati, molti dei quali stranieri e addirittura extra europei. E molta della tecnologia su cui i sistemi si appoggiano viene da paesi come USA e Cina… Senza entrare in considerazioni politiche, occorre semplicemente applicare una buona analisi del rischio ai vari elementi costituenti la base informatica dei sistemi critici (e, in verità, anche su altri settori), per avere un quadro oggettivo della situazione e prendere decisioni logiche.
L’Unione Europea e gli stati più grandi che ne fanno parte sono, ad oggi, il cuore della democrazia e dei diritti individuali, nonché all’avanguardia nelle iniziative per uno sviluppo sostenibile che possa consentire la sopravvivenza dell’umanità nei prossimi secoli. Per poter rimanere in questo ruolo occorre avere basi forti per la propria società, specialmente in un mondo sempre più complesso ed instabile come quello in cui stiamo vivendo.
Nel prossimo articolo vedremo come la rete può dare origine a un ulteriore contesto di interoperabilità fra umani e sistemi, molto utile in un mondo “poco stabile”.
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