«Le parole che scegliamo per nominare e descrivere i fenomeni possono aiutarci a capirli meglio. E quindi a governarli meglio. Quando però scegliamo parole imprecise o distorte, la comprensione rischia di essere fuorviata. E sono fuorviati i sentimenti, le decisioni e le azioni che ne conseguono [1].»
Nelle sue Lezioni americane, Italo Calvino inserisce il termine esattezza.
«Tra i valori che vorrei fossero tramandati al prossimo millennio c’è soprattutto questo: una letteratura che abbia fatto proprio il gusto dell’ordine mentale e dell’esattezza, l’intelligenza della poesia e nello stesso tempo della scienza e della filosofia […].»
Astraendoci dal pensiero di Calvino, il termine esattezza nella sua definizione più prosaica rimanda a una rigidità di tipo matematico, a un aspetto asettico in cui nessuna variante o variazione ha spazio.
L’esattezza così intesa è granitica, certa, ma proprio per questo poco armonizzabile con le forme plastiche delle relazioni e della comunicazione umana. Per questo è più idoneo il termine di accuratezza nel suo senso etimologico che, non a caso, deriva da accurato, che in latino indicava ciò che viene fatto con cura.
Suoi altri sinonimi sono quelli di precisione, diligenza, esattezza, attenzione, cautela, dedizione, amorevolezza (Wikidizionario)
In una sorta di licenza poetica in questo articolo, io uso invece il termine ad-curam, che richiama sì il suono della parola accurato, ma che, nel prefisso ad di moto a luogo (che in in latino vuole indicarne il percorso, la propensione), aggiunge all’atto la sua intenzione, ovvero l’intento.
Prendersi cura, infatti, è un processo che si dipana nel tempo e nello spazio, un percorso che non si definisce mai una volta per tutte, ma che deve necessariamente arricchirsi dei mutamenti sociali e personali che ci coinvolgono, nonché tenere conto della complessità del mondo che viviamo e che difficilmente può essere ridotto a certezze monolitiche.
Ad-curam, inoltre, non contempla solo un assetto di pensiero, ma anche una componente sensoriale e tattile (il “maneggiare con cura” che troviamo affisso sugli imballaggi di oggetti fragili).
Lo stesso termine cura che spesso rimanda al trattamento di una patologia va inteso nel senso più lato di “premura per qualcosa o per qualcuno, spesso fondata sulla fiducia reciproca” (Wikidizionario).
Il linguaggio è il primo aspetto che ci guida verso la cura delle relazioni, della società e del nostro vivere quotidiano e futuro. La parola deve essere curata, proprio nel senso di averne cura. Condividi il Tweet
“Nella sua forma più antica cura in latino si scriveva coera [2] ed era usata in un contesto di relazioni di amore e di amicizia. Esprimeva l’atteggiamento di premura, vigilanza, preoccupazione e inquietudine nei confronti di una persona amata o di un oggetto di valore.” Leonardo Boff [3].
Se la parola può essere considerata una parte importante di quel legante, allora il linguaggio è il primo aspetto che ci guida verso la cura delle relazioni, della società e del nostro vivere quotidiano e futuro. La parola deve essere curata, proprio nel senso di averne cura.
Perché ciò che veicola è prezioso, privato, intimo. E perché trovare le parole giuste per trasmetterlo è il miglior modo per rendergli giustizia. La cura della parola diventa ad-curam, un modo di operare nel mondo.
La lingua e il genere
Le parole sono importanti, le parole costruiscono il mondo e il nostro pensiero e esplorarle in tutti i loro significati è fondamentale per com-prendere il mondo.
Come abbiamo visto in questi brevi stralci tratti da un dizionario, è possibile ampliare il concetto di cura e astrarlo dalla sua connessione immediata con il termine malattia in una correlazione che tende, nell’immaginario ad una esattezza matematica, ad una linearità. Se ciò non è vero per la cura del patologico, men che meno è applicabile per la cura in senso lato.
Le parole sono importanti, le parole costruiscono il mondo e il nostro pensiero e esplorarle in tutti i loro significati è fondamentale Condividi il TweetPredisporsi all’ad-curam implica cambiare assetto mentale in cui la cura delle cose non è il fine ma il mezzo. Il legante con il quale teniamo insieme le cose del mondo. In quanto processo, non può che essere un assetto continuo, persistente, soggetto a variazioni e valutazioni.
La lingua, ad esempio, è uno degli aspetti che più risente della dicotomia tra esattezza e accuratezza: si è sempre detto così oppure possiamo cambiarla? Basterebbe un’occhiata ad un dizionario etimologico per rispondere a questa domanda.
Molti linguisti ci dicono che la grammatica spesso segue più che la regola, il costume, la Weltanschauung [4] del periodo storico che viviamo, se mi permettete l’uso del termine. Le rigidità al cambiamento linguistico sono spesso da ricondurre a due aspetti: l’abitudine d’uso e la cosiddetta tradizione.
Negli ultimi anni si è parlato molto di linguaggio di genere anche se in Italia se ne parla da tempi molto meno recenti.
Alma Sabatini nel 1987, affrontando il tema del sessismo nella lingua italiana ci diceva “La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione… e l’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione del pensiero e dell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta [5]”.
La parola ha – in sé – un potere trasformativo che la rende di per sé processo e non fine. La parola ha anche un ruolo importante nella dimensione di cura terapeutica proprio nel suo potere di modificare l’assetto mentale, di variare il baricentro con cui ci muoviamo nel mondo.
Ampie parti di mondo sociale acquisiscono dignità di esistere grazie al poter essere nominate e incluse nella narrazione in cui viviamo. Condividi il Tweet
Più di recente, Vera Gheno, si è fatta portatrice di una lunga discussione sul linguaggio di genere inclusivo e molto spesso si trova di fronte a muri che ridicolizzano i suoi discorsi in nome dello status quo. Sì, perché accettare di stare in un processo di ad-curam implica accettare di stare in un continuo processo di cambiamento e questo spesso ingenera una forte paura.
“Noi siamo il lessico che scegliamo, le frasi che componiamo, perché «la parola è un costante atto di identità»”
In riferimento al suo ultimo libro ci dice:
“Una buona comunicazione è il risultato di una buona lingua, di buone parole. «E comunicare bene è un favore che si fa a se stessi» perché se da un lato oggi, nella società della comunicazione, chi è in grado di comunicare meglio riesce ad avere più potere, dall’altro un lessico prosperoso permette di «dipingere con pennellate più precise anche i nostri pensieri. In questo risiede il potere delle parole. Nella possibilità di ‘far vedere chi si è’»” [6].
Far vedere è il concetto che più mi sta a cuore: usare le parole giuste, le variazioni linguistiche giuste, come già ricordava Alma Sabatini, porta alla luce, rende visibile, rende lecito, rende “esistibile” ciò che viene nominato.
Ampie parti di mondo sociale che acquisiscono dignità di esistere grazie al poter essere nominate e incluse nella narrazione in cui viviamo.
Il linguaggio d’odio
Uno degli aspetti più plateali della commistione tra linguaggio ed emozioni, linguaggio e azione nel mondo è quello dell’Hate Speech. Un linguaggio che diventa un’arma potente per delegittimare, per ferire, per annientare l’altro o realtà che non amiamo (o non com-prendiamo).
“per discorso dell’odio [si intende] il fatto di fomentare, promuovere o incoraggiare, sotto qualsiasi forma, la denigrazione, l’odio o la diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo, nonché il fatto di sottoporre a soprusi, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce una persona o un gruppo e la giustificazione di tutte queste forme o espressioni di odio testé citate, sulla base della “razza”, del colore della pelle, dell’ascendenza, dell’origine nazionale o etnica, dell’età, dell’handicap, della lingua, della religione o delle convinzioni, del sesso, del genere, dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale e di altre caratteristiche o stato personale [7].”
Il linguaggio d’odio permea le relazioni, veicola emozioni quali rabbia, disgusto o paura, definisce i parlanti e i destinatari in modo rigido.
Mettere in moto un processo di ad-curam delle parole, implica, quindi, un porre un freno al linguaggio d’odio dilagante ponendo al suo posto un linguaggio inclusivo delle diversità, delle minoranze e un linguaggio “gentile”.
Mettere in moto un processo di ad-curam delle parole, implica, quindi, un porre un freno al linguaggio d’odio dilagante ponendo al suo posto un linguaggio inclusivo. Condividi il Tweet
Un linguaggio ad-curatum, accompagna le persone e la comunicazione verso un incontro. Un linguaggio conflittuale, d’odio separa, cristallizza, dicotomizza.
Se ciò è vero nella comunicazione vis à vis, è ancor più palese nella comunicazione digitale, dove l’altro può arrivare a non esistere come essere umano in quanto non visibile nella sua forma umana, in un processo di de-umanizzazione indotto dall’assenza del corpo e della visibilità delle emozioni e reazioni.
E di nuovo quindi ci troviamo di fronte a quanto il rendere visibile, il portare alla luce sia imprescindibile per il processo di ad-curam.
Un mondo sostenibile è possibile se si va verso un risparmio energetico, un miglior uso delle risorse. In questo rientrano anche le energie relazionali quando la messa in gioco di energie emotivamente nocive, che inquinano il clima della società umana, danneggiano le relazioni stesse.
Attivare, immergersi in un processo di ad-curam nelle cose che si fanno, nei confronti delle persone e delle cose del mondo dovrebbe essere l’obiettivo che ci poniamo per il prossimo futuro. Il nostro mondo, fisico e relazionale, mai come oggi ha bisogno di essere maneggiato con cura, perché:
“Amare gli altri ed avere cura di loro, è agire con umanità.
Comprenderli, è agire con virtù.”Confucio
Alla prossima,
Sonia Bertinat
FONTI
[1] Smettiamo di dire che è una guerra
[2] CURA: “dal latino arcaico coira, coera” che i grammatici latini riconducevano a cor, “cuore” ma che secondo le teorie più moderne (cfr. Pianigiani) è piuttosto riconducibile alla radice del proto-indoeuropeo *kʷeys-, “fare attenzione, guardare”, da cui anche l’aggettivo curiosus, oppure dalla radice *(s)kewh₁-, “osservare, guardare, prestare attenzione”, dalla quale discendono il verbo caveo, ed anche il sanscrito कवि (kaví), “saggio”; il greco antico κοέω, “sapere, essere a conoscenza di”; il lituano kavoti, “proteggere, accudire”; ed attraverso la radice germanica *skawwōną anche l’inglese to show, “mostrare” o il tedesco schauen, “guardare, vedere”. Con ogni probabilità l’inglese care non è invece correlato”.
Sinonimi
- (attenzione, premura) studium, intentio, diligentia
- (preoccupazione, cruccio, affanno) timor, dolor, maeror, cruciatus
- (incarico, impegno, compito, responsabilità) officium, munus
- (cura di una malattia) remedium, curatio, medicina
[3] Alle radici della parola ‘cura’
[4] Il termine Weltanschauung appartiene alla lingua tedesca (pronuncia /ˈvɛlt.anˌʃaʊ.ʊŋ/) ed esprime un concetto fondamentale nella filosofia ed epistemologia tedesca, spesso applicato in vari altri campi, in primis nella critica letteraria e della storia dell’arte.
Non è letteralmente traducibile in lingua italiana perché non esiste nel suo lessico una parola che le corrisponda appieno. Essa esprime un concetto di pura astrazione che può essere restrittivamente tradotto con “visione del mondo”, “immagine del mondo” o “concezione del mondo” e può essere riferito a una persona, a un gruppo umano o a un popolo, come a un indirizzo culturale o filosofico o a un’istituzione ideologica in generale e religiosa in particolare.
[5] Sabatini, A. “Il sessismo nella lingua italiana”, 1987
[6] Vera Gheno: «L’italiano non deve essere salvato, deve solo essere amato»
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