Interoperabilità dei sistemi informativi delle Pubblica Amministrazione: perché non basta l’ottica trasformativa

Anna Pompilio
Anna Pompilio

Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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Non sono sicura di ricordare come sono passata dall’interoperabilità nella Pubblica Amministrazione all’autobiografia come infrazione di Andrea Tarabbia, ma poi a ragionarci su, mi è sembrato un buon punto di ri-partenza.

nell’autobiografia, intesa come racconto di sé in senso molto ampio, amo la lontananza dagli schemi della narratologia. So bene che anche il racconto autobiografico ha le sue regole, eppure lo vivo, da lettore, come meno vincolato rispetto alla forma romanzo. In un’autobiografia non ci sono per forza il principe, la principessa, il drago, il bosco da attraversare, gli aiutanti. Non c’è Propp, non c’è lo strutturalismo, non c’è la tecnica necessaria a far stare in piedi un romanzo: l’opera qui si regge sul fatto che chi racconta ha cose da raccontare e l’autorità necessaria per farsi ascoltare. Quando c’è da divagare, si divaga, quando c’è da tornare su cose già dette, si ritorna, quando c’è da inserire pagine di saggistica, lo si fa.

Cosa c’entra la propensione dell’autore verso l’autobiografia con l’interoperabilità nella PA? Ha a che fare appunto con l’attitudine, il metodo, la tecnica, le regole e la necessità di essere strutturati.

A chi del resto non piacerebbe scordarsi di Propp e dello strutturalismo?

Ma in periodi come quello che stiamo vivendo in cui uno strappo improvviso, un’infrazione rispetto ad un orizzonte d’attesa rende tutto molto più incerto, non basta più avere cose da raccontare e l’autorità per farsi ascoltareL’incertezza richiede strategie di cambiamento strutturate allo scopo di testarne le assunzioni. Non basta l’ottica trasformativa, la passione, la buona volontà, l’eroe solitario che si allontana nel tramonto infuocato alzando nuvole di polvere, lasciando dietro di sé i fumi della battaglia vinta e una città libera dal male.

Elementi per una strategia di cambiamento strutturata

Di cultura organizzativa nella Pubblica Amministrazione e di come la resistenza al cambiamento abbia impedito finora di raggiungere molti dei delineati obiettivi di interoperabilità, ma non solo, abbiamo accennato nel secondo post di questa rubrica, attraverso il racconto dei suoi protagonisti. Proviamo ora a capire meglio i motivi per cui non è così immediato superare gli ostacoli legati all’opposizione culturale, allargando il concetto a due degli elementi chiave della Change Strategy: struttura e capacità organizzativa.

Struttura e Cultura Organizzativa (Organizational Structure and Culture)

Il termine struttura organizzativa si riferisce alle relazioni formali tra le persone che lavorano nell’organizzazione. Ma la struttura organizzativa guida anche i canali di comunicazione e le relazioni informali all’interno della stessa.

È quindi di fondamentale importanza, nell’attuazione di strategia di cambiamento, analizzare a fondo la struttura organizzativa in modo che l’impatto (positivo o negativo) dell’innovazione sia ben compreso e non rigettato. Come? Le modalità possono essere molteplici, ad esempio attraverso una buona progettazione, intesa come organizzazione puntuale di tutti i vari aspetti del progetto in senso ampio, comunicazione compresa. Comunicazione che non significa attivare tutti i possibili flussi tra le persone coinvolte.

“In una rete sociale di N stakeholder ci sono N * (N-1) / 2 potenziali flussi di comunicazione, che sarebbe controproducente attivare tutti, l’ingaggio degli stakeholder viene garantito progettando questi flussi per trovare un equilibrio tra efficacia (poche connessioni) ed efficienza (pochi passaggi di informazione) applicando ad esempio la teoria dei grafi (network analysis).”

Marco Caressa, da Project Management: comunicazione e modello di rete piccolo mondo”

Ma anche assumendo di aver risolto con un buon piano la faccenda della comunicazione, attivando ad esempio la mappa degli Stakeholders in forma di grafo; definendo la matrice Power-Interest o la Stakeholders Engagement Assessment Matrix; anche qualora avessimo una risposta chiara e inequivocabile alla domanda: “che cosa cerca, normalmente, un lettore di autobiografie altrui? La verità?” avremmo ancora una volta garantito solo un primo livello di interoperabilità tra i soggetti coinvolti a vario titolo nel cambiamento, quella sintattica.

Ognuno dei nodi del grafo è infatti portatore di discrepanze non facili da cogliere ed è proprio quel groviglio intimo dell’essere umano che dell’interoperabilità continua a rendere complessa la semantica, ovvero il riuscire a comprendersi per cooperare nonostante ci si sia resi conto ultimamente (con un piccolo aiuto esterno) di essere e agire tutti nella medesima circostanza.

Capacità e Processi (Capabilities and Process)

In uno dei primi giorni della pandemia, una sera senza particolari intenzioni ho cominciato ad ascoltare per caso un intervento di Bruno Mastroianni – filosofo, giornalista, social media manager di trasmissioni televisive – dal titolo “competere, cooperare, decidere, per un modello di dibattito deliberativo”.

Spiegava, con la limpidezza espressiva che lo contraddistingue, come due persone in un dibattito finiscono spesso per abbandonare il merito dell’argomento per cominciare a orientare il dialogo sulle caratteristiche personali dell’interlocutore.

Quando si smette di discutere del tema, accusandosi magari l’un l’altro, una delle conseguenze peggiori è la perdita di fiducia nel dibattito stesso e nelle persone interessate, mentre sarebbe necessario andare verso un modello deliberativo in cui diventa centrale l’argomentatore (colui che riesce a stare nella discussione) e diventa soprattutto importante riuscire a mantenere la centralità dell’argomento.

In altri termini si guarda all’argomentazione considerando non l’abilità ma la virtù dei contendenti.

Ora, il concetto di abilità, capacità o capabilities che dir si voglia fa parte di un vocabolario per me legato al business e che trova riscontro, nel caso in esame, più o meno nell’assunto che capabilities and processes are all the functions performed within the organisation, including products, services, and decision-making methods e si riassume nell’idea che l’approccio metodologico per gestire un progetto – che presuppone come prerequisito l’abilitazione di sistemi interoperabili – parte proprio dall’analisi del gap in termini di capabilities.

Analisi che serve a identificare se sono già disponibili o facilmente approntabili le nuove capacità richieste dal cambiamento in atto, o se invece sarebbe maggiormente vantaggiosa un’innovazione nei processi.

L’etica delle virtù tuttavia ci dice un’altra cosa. Ci dice innanzitutto che la differenza tra abilità e virtù sta nel fatto che nell’abilità le mancanze intenzionali (o i fantomatici silos) possono essere scusate da mancanza di capacità in quello che si sta facendo, nella virtù no. Una mancanza intenzionale nella virtù non ti scusa ma aggrava perché c’è l’elemento morale. Virtù e abilità sono dunque entrambe capacità di mettere in campo azioni per raggiungere un fine ma nella virtù c’è anche l’elemento morale del produrre in questo un bene per se e per gli altri. L’etica della virtù ci dice che si possono avere ottime capacità che tuttavia si potrebbero usare in maniera disfunzionale ed è quindi necessario formare persone non solo abili ma virtuose.

Per lungo tempo ci siamo soffermati sull’interoperabilità intesa come cooperazione applicativa. Per lungo tempo ci siamo concentrati sulla macchina dimenticando l’uomo ma l’Essere Interoperabile è l’unico che può tendere a una cooperazione virtuosa, all’utilizzo delle competenze verso domini di eccellenza che costituiscono un valore in sé, che non sono legate a fattori esterni o a un tornaconto personale.

Per fare innovazione dunque, servono senza dubbio strategie di cambiamento strutturate ma non basta, perché poi bisogna avere capacità e virtù per ascoltare la voce dei filosofi, per allontanarsi dagli schemi della narratologia, per inseguire non la verità ma il vero, per investire nel capitale sociale e semantico.

Cooperazione applicativa e team virtuosi

Per tirare dunque le fila del discorso, siamo partiti da qui nel caso a questo punto vi foste distratti :), e citare ancora una volta un filosofo: le persone esperte dovrebbero lavorare con le persone competenti.

Gli esperti di dominio o della politica o delle organizzazioni dovrebbero necessariamente prendersi le responsabilità delle scelte strategiche ma dovrebbero avere anche la possibilità di farsi aiutare a portarle avanti da persone competenti nel senso virtuoso del termine.

Mauro Porcini, in un recente intervento sul Design Thinking  ha raccontato che quando ha iniziato il suo percorso in Pepsi gli hanno dato l’opportunità di “scegliere i migliori Designer sul mercato” per formare il suo team. Alcune sporadiche concessioni a questa linea di pensiero e azione sono frutto di una direzione illuminata, molto spesso invece la frase che ci si sente ripetere è: si fa il fuoco con la legna che si ha, con il risultato che spesso e volentieri si alzano solo bellissime nuvole di fumo a beneficio di chi sta su una Grande Mesa e osserva da lontano con un cannocchiale. Si parla sempre molto nei webinar, nei meeting, negli speech di multidisciplinarità, della necessità di mettere insieme i saperi, di non tenerli isolati ma poi?

Bisognerebbe avere il coraggio, di questi tempi, di smettere di distribuire etichette per anzianità di servizio a chi non ha la necessaria competenza, giustificando in tal modo le mancanze intenzionali: un ottimo sviluppatore senior non diventa automaticamente un bravo Project Manager e potrebbe benissimo ignorare i principi della network analysis. Se non si studia, continuo  a ripeterlo, ogni santo giorno, se non si sente la necessità di imparare da qualcuno più bravo ma si va solo alla ricerca di conferme alle nostre convinzioni, se non si decide scientemente tutti di metterci scomodi, se non si passa dall’abilità alla virtù, se non si ragiona in termini di sostenibilità, allora non c’è innovazione che tenga perché il digitale, l’interoperabilità, l’Intelligenza Artificiale, il Design non sono altro che un sistema, aperto, di pensiero strutturato.


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