Interoper-abilità Uomo-Uomo: dal panico morale alla condivisione del sapere e delle emozioni. Intervista a Sonia Bertinat

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Sonia Bertinat

Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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Benvenuta Sonia nel nostro blog e grazie davvero per aver accettato la nostra intervista. Come sai, quest’anno, ci occupiamo di “interoperabilità”, termine tecnico all’apparenza un po’ astruso che — riversato dall’ambito tecnologico e quello più umanistico – può essere riassunto come la possibilità di “traduzione” — concettuale, affettiva, psicologica, corporea ed emozionale – dello stato, le istanze e delle aspettative di ogni essere vivente verso un altro, in questo caso umano.

È chiaro che il punto di partenza di questa possibilità di interazione sta nella DIVERSITÀ dei soggetti in questione, diversità che necessitano di un collegamento, un ponte…

Questo – in un momento di forte evoluzione non solo tecnologica, ma anche culturale sociale, come quella che stiamo vivendo – può essere un punto cruciale.

A maggior ragione se questa opera di “traduzione” non riesce, e gli individui e le comunità di riferimento non riescono a generare una sorta di zona franca in cui le diverse persone – istanze, bisogni, aspettative – riescano a convivere meglio tra loro. Questo vale per i singoli e le famiglie, la scuola, i media e gli ambiti professionali e lavorativi.

Andiamo quindi alla nostra prima domanda

Partendo dallo stato dell’arte dei social (e del loro uso) spesso veicoli di istanze anche violente di avversione verso ciò che è altro da sé (o diverso), in uno dei tuoi articoli hai parlato di panico morale… Puoi illustrarci meglio il concetto?

Volentieri! E grazie a voi per l’invito: sono temi di cui mi occupo da tempo, anche se in altri modi 🙂

Il panico morale è un concetto proposto dal sociologo Stanley Cohen nel 1972 nel suo libro “Demoni popolari e panico morale (1)

Con il termine Panico Morale si intende un fenomeno di panico collettivo ingiustificato nei confronti di un qualcosa vissuto come minaccia e che viene alimentato da notizie miranti a scatenarlo o alimentarlo.

Nel momento in cui si attiva una risposta istituzionale al panico morale è possibile che vengano attuati dei cambiamenti sociali che mirano a sedare la minaccia. Se pensiamo a molti fenomeni della nostra attualità (la teoria gender, i migranti, la tecnologia) riscontriamo i meccanismi e i passaggi identificati da Cohen:

  • Preoccupazione: viene identificata o creata e poi amplificata.
  • Ostilità: la preoccupazione si trasforma in atteggiamento ostile.
  • Consenso: il supporto al panico avviene su larga scala.
  • Disproporzionalità: non c’è una correlazione reale tra il fenomeno e il suo impatto e la paura generata dal panico morale.
  • Volatilità: le minacce identificate possono cambiare nel giro di poco tempo e all’epoca dei social aumenta la velocità con cui mutano. 

In generale, ciò che viene osteggiato è il cambiamento e l’evoluzione di una società in quanto il permanere o il ripristino dello status quo è più tranquillizzante in quanto conosciuto. Il cambiamento genera sempre timore, il timore dell’ignoto, e diventa terreno fertile per chi non vuole che si attui (2).Ne deriva anche una questione legata al Potere: chi traghetta verso il cambiamento, come posso mantenere la mia posizione di potere in un mondo cambiato?

Grazie mille, Sonia. Trovo davvero puntuale e pertinenti i concetti che hai condiviso con noi. 

Andiamo alla seconda domanda. La tecnologia, come sempre, porta con sé due differenti orizzonti, uno più “integrato” e uno “apocalittico”. Come si traduce oggi questa dicotomia rispetto alle diverse generazioni? Quali sono gli aspetti psicologici in gioco?

Come dicevo sopra, la tecnologia è uno di quei temi nei confronti del quale assistiamo a molte ondate di panico morale. 

Timori in alcuni casi non del tutto infondati, magari, ma sicuramente ingigantiti e distorti. danah boyd (si scrive minuscolo per volere dell’autrice) in un suo libro (3) ci dice che lo stesso panico legato alla salute delle persone sia stato innescato ad esempio dalla macchina da cucire o dai walkman. 

Ad ogni cambiamento è necessario lasciare andare qualcosa delle nostre abitudini, del nostro modo di affrontare le coseÈ inevitabile ma non catastrofico.

Purtroppo la reazione al panico morale tecnologico spesso è rigidamente dicotomica tra chi si pone sul polo esclusivamente favorevole ed entusiasta rispetto alle innovazioni e chi le demonizza tout court. È palese come non sia mai utile una polarizzazione di questo tipo in quanto entrambi i poli rischiano di non portare nella loro posizione le criticità che possono essere proposte. 

Proprio perché i cambiamenti sono importanti e comportano dei passaggi in cui si abbandonano alcune abitudini (o tecniche) vanno affrontati nel modo più chiaro e realistico possibile e le criticità non vanno cavalcate, ma nemmeno messe a tacere.

Affrontare i cambiamenti avendo tutti gli aspetti in mente, positivi e negativi, permette di non fare dei salti nel vuoto.

Un rischio che si corre, ad esempio, è quello di adattare a nuovi contesti modalità tecniche e organizzative che richiederebbero invece, per essere sviluppate in tutta la loro potenzialità, un nuovo modo di pensare. Il rischio, altrimenti, è che tali cambiamenti vengano considerati fallimentari o poco utili e quindi di tornare indietro alle vecchie modalità operative.

In questo il gap generazionale è molto presente tra chi è approdato alla tecnologia con vecchi modi di pensare e chi vi ci è nato “dentro”adattando il pensiero al nuovo mezzo. Vedo ancora molti contesti in cui si stampano le email o le fatture elettroniche, per esempio. Al di là del discorso ecologico, sottende un processo di pensiero che non riesce a trattare in maniera compiuta ciò che è dematerializzato. 

Il passare completamente a qualcosa di nuovo sottende a un pericolo psicologico legato all’essere tagliato fuori, alla paura di non essere in grado, alla perdita di importanza del background culturale o operativo passato. E quando si rischia di diventare “inutili” ci si difende.

Vengono messe in gioco le gerarchie e i ruoli quando ad esempio chi è in posizione di apice ha meno competenze di chi è più giovane. Lo vediamo tutti noi nel nostro piccolo, nelle relazioni familiari dove spesso i genitori non hanno gli strumenti educativi per affrontare i cambiamenti che la tecnologia immette nella vita quotidiana dei loro figli. Ma lo vediamo anche in campo aziendale, dove la leadership fatica a far spazio alle innovazioni perché non ha gli strumenti per maneggiarla e teme di perdere il controllo (e il potere).E allora si svaluta ciò che non si conosce e chi (o ciò che) è portatore del nuovo.

A volte però i cambiamenti sono inevitabili e solo la consapevolezza dei limiti e delle resistenze (spesso irrazionali e non legate all’oggetto del cambiamento in sé), oltre al necessario dialogo tra le parti, può garantire la proficua evoluzione ed evitare la polarizzazione.

Il “vecchio” deve aprirsi al “nuovo” (lo intendo a livello concettuale e non generazionale) svincolando il proprio sapere acquisito dagli oggetti o dalle procedure e trasmetterlo a livello di concetti e principi. E il “nuovo” deve attingere a quegli stessi concetti e principi per non ridurre il cambiamento alla mera tecnica.

Per farti un esempio più nel mio campo, i genitori si vivono come impreparati nel  gestire cose tecniche e quotidiane, come il tempo dedicato ai videogiochi dei figli, ad esempio, senza riuscire a capire come limitarlo. Il risultato è che magari nascondono la console o tolgono la wifi… È ovvio che un atteggiamento del genere non produrrà dialogo. Con ciò non voglio dire che i genitori non debbano mettere limiti: questo è il loro ruolo e i ragazzi necessitano di cornici chiare in cui muoversi, ma non è nelle azioni che passiamo quei limiti, quanto piuttosto nei principi che trasmettiamo (Shapiro, 2019) (4).

Se facciamo una traslazione di senso e consideriamo i senior aziendali come genitori e gli junior come figli il discorso non cambia. Non è limitando o osteggiando l’innovazione che l’azienda progredisce, ma può farlo tramite lo scambio di competenze (non necessariamente tecniche) integrando saperi anche molto diversi tra loro e sfruttando anzi quanto di utile può apportare un occhio esterno al processo. Per riprendere l’esempio della mail stampata, in questo passaggio c’è un messaggio concettuale: la necessità di mettere in atto una modalità di archiviazione sicura in cui la stampa si configura come mero adattamento del vecchio al nuovo. Viceversa, al nuovo si potrebbe portare tale criticità percepita sulla sicurezza  dell’archiviazione ed aprirsi alle soluzioni che questo potrebbe portare a tale necessità.

Perfetto, Sonia. Questo ci conduce di nuovo al tema dell’interoperabilità, ovvero alla possibilità che ha ogni capacità comunicativa di far dialogare (interagire, tradurre) tra di loro culture, saperi, orizzonti anche completamente diversi tra loro. 

Quali sono i consigli che puoi dare a livello personale e istituzionale per muoversi in questo orizzonte?

In parte ho già affrontato la questione nella domanda precedente parlando di dialogo tra generazioni e ruoli di potere. Ma il discorso fatto si adatta perfettamente anche all’interoperabilità. 

Prendo in prestito l’incipit della definizione che ne dà Treccani “Capacità di due o più sistemi, reti, mezzi, applicazioni o componenti, di scambiare informazioni tra loro e di essere poi in grado di utilizzarle. Capacità di due o più sistemi, reti, mezzi, applicazioni o componenti, di scambiare informazioni tra loro e di essere poi in grado di utilizzarle.” Il termine più rilevante per me è “scambio”.

Il concetto parte dal presupposto che non sia esclusivamente un sistema a detenere il sapere assoluto su quel campo, ma che, invece, ci siano più sistemi che – seppure in modo diverso – ne detengono una porzione.  

Lo scambio non diventa solo auspicabile, quindi, ma necessario se si vuole dare a quel campo tutto il know how possibile per favorirne la crescita e lo sviluppo. 

Un esempio sicuramente è quello dell’”usability” nel campo della progettistica. Un sistema metterà in campo le sue conoscenze tecniche per la realizzazione dello strumento, ma affinché se ne possa fruire non potrà non dialogare con il sistema che si occupa di come quello strumento verrà usato, assieme alla messa a punto dei modi idonei a facilitarne l’utilizzo. 

Tutto ciò sembra palese, ma spesso si tende a rimanere chiusi nelle proprie procedure, pur standardizzate e corrette, senza pensare che possano non essere esaustive. I prodotti che escono dalle aziende (che siano oggetti o siano servizi) non possono prescindere dallo sguardo verso l’utilizzatore finale se no ci troviamo a viaggiare con ruote quadrate che hanno rispettato tutti i dettami procedurali ma che poi sono inutilizzabili oppure oggetti di design bellissimi dal punto di vista artistico ma assolutamente inutilizzabili per la funzione per cui erano stati studiati. 

Bisogna avere il coraggio non solo di aprirsi a sguardi e pensieri “altri”, ma anche di lasciarsi contaminare. Ciò comporta spostare il focus sul campo (concetto, prodotto servizio) e non sulle proprie peculiarità. Bisogna mettere al centro del tavolo il servizio o prodotto e far sedere intorno al tavolo tutti i sistemi che hanno qualcosa da dire su ciò che c’è al centro. 

In campo digital lo vedo spesso tramite i miei contatti che si occupano ad esempio di Social Media Marketing. La loro difficoltà più grande è contrastare la tendenza delle aziende o dei liberi professionisti di riversare sul digitale le modalità operative messe in atto nell’offline. Il professionista incaricato diventa un mero esecutore ai loro occhi di questo travaso ma non gli viene data voce in capitolo per mettere nel campo la sua competenza. Per poi, di fronte a un fallimento o uno scarso risultato, precipitarsi a dare la colpa al mezzo, allo strumento digitale pur di non mettere in discussione il  proprio modo di pensare al “nuovo”.

 

Mi ritrovo molto nelle tue parole, Sonia, e mi viene in mente il Prof. Dominici e i suoi studi sulla complessità. Spesso il professore parla di figure professionali Ibride. 

Anche in termini di interoperabilità c’è sempre più spesso la necessità di creare competenze e spazi comunicativi in grado di favorire questi processi… 

Arrivo quindi alla prossima domanda. Dal punto di vista psicologico e in base alla tua esperienza come deve muoversi un professionista o un’organizzazione per favorire questo trend?

Ho letto ciò che dice il Prof. Dominici anche nella bella intervista sul vostro blog e non posso che concordare in pieno con le sue affermazioni. Ciò che manca troppo spesso, quando assistiamo all’arroccamento su un know how conosciuto, è proprio il perdere di vista il fine teleologico delle proprie attività od azioni. Il “perché sto creando questa cosa?”.

Ma soprattutto “per chi?”. Si sente parlare spesso di “consumatore finale” ma il ruolo che poi gli viene dato è quello di soggetto passivo che “deve” apprezzare il prodotto o il servizio senza metterlo in discussione. Soggetto passivo a cui dare la colpa qualora non dia un feeedback positivo. Ma se non pensiamo al consumatore finale fin dalle prime fasi della progettazione come possiamo pensare che il riscontro positivo sia scontato? 

Spesso aziende e professionisti affrontano le evoluzioni della società stando sulla riva o abbracciati ad un masso nel fiume che scorre, illudendosi che sia il fiume a doversi fermare.per dialogare o spesso solo omaggiare il servizio reso. Se non si parte dal presupposto che quel fiume bisogna navigarlo con strumenti di navigazione (e qui il termine usato per l’utilizzo del web è stringente) adeguati ne verremo travolti. 

Se ci ostiniamo a usare una barca a remi (funzionale perché sta a galla e porta da una parte all’altra senza problemi da anni) per attraversare un oceano, non possiamo poi dare la colpa all’oceano se affondiamo. In psicologia si parla di locus of control interno od esterno.

Nel primo caso assumo su di me in primis la responsabilità o criticizzazione rispetto ad un processo. Nel secondo caso la attribuirò all’esterno. Ovviamente (come avrai capito non amo le polarizzazioni) anche qui non bisogna esponenzializzare il discorso. Ma un minimo di locus of control interno è necessario; il che implica non solo il porre sotto la lente critica le mie azioni o i miei progetti ma anche capire quali sono le mie potenzialità, fin dove arrivano e dove devo incontrare quelle di un altro sistema. Questo meccanismo lo vedo, anche da consumatrice, nelle aziende, ma anche nei professionisti, anche nella mia professione.

Se non siamo in grado di accettare che quella barca a remi debba essere perlomeno modifica e dotata per esempio di un motore (se proprio non vogliamo archiviarla) dobbiamo accettare di dialogare con chi produce i motori per capire se si adattano alla mia barca, se è resistente a sufficienza per reggerne il peso o l’impatto accelerativo. Ma non possiamo solo acquistare un motore e metterlo sopra. Dobbiamo progettare le modifiche, il cambiamento.

Il confronto tra professionalità diverse o settori diversi ha ancora un grosso gap comunicativo che sta in uno degli elementi principe della comunicazione: il linguaggio. 

Il linguaggio struttura il pensiero, e il pensiero viene espresso con il linguaggio. Se non adatto il mio linguaggio al fine di essere compreso da chi usa un altro tipo di linguaggio (che dovrà adattare a sua volta) non potrò mai creare l’incontro e la sinergia. Se pongo il mio linguaggio (ciò con cui mi definisco e con cui definisco la mia identità professionale o aziendale) ad un livello superiore non riuscirò mai ad attuare quel dialogo.

A volte la sola collaborazione professionale non basta ed è necessario che il singolo professionista o la singola azienda abbia al suo interno chi incarna entrambe le competenze. Mi piace il termine di professionalità ibrida in quanto oggigiorno sempre di più credo che le competenze specifiche non siano più sufficienti per affrontare un mondo complesso. Dobbiamo fare degli innesti, modificare delle strutture per avere nuovi occhi. 

Penso agli avvocati con cui collaboro e che si occupano di digitale per esempio o ai colleghi come me che si occupano di digitale. Non è pensabile pensare che le sole competenze acquisite nei nostri percorsi formativi siano sufficienti. Dobbiamo (anche eticamente) contaminarci con altre aree di competenza. 

E concordo col Prof. Dominici: questo non vuol dire diventare tuttologi, ma piuttosto conoscere ciò di cui si parla e fornire un buon servizio al consumatore finale. Innestare nella specifica identità professionale altre competenze non implica fare a meno di chi quelle competenze le ha nella sua identità, ma fa sì che, se anche lui si fa “contaminare”, potremo dialogare, capirci davvero e progettare al meglio.

Sono d’accordo! Ma in questo orizzonte di innovazione così ampio – che si traduce tuttavia in spazi potenzialmente illimitati di “comunicazione”, ma anche sempre più a rischio di autopoiesi e chiusura su di sé – quale è il ruolo oggi potrebbe giocare la scuola per favorire l’apertura e non la chiusura?

Prendo la metafora che ho fatto sopra. La scuola, al momento, è quell’istituzione che sta sul bordo del fiume. Gli istituti più coraggiosi sono attaccati alla pietra in centro al fiume. 

La scuola continua a alimentare sé stessa (a partire dai programmi ministeriali per arrivare alle procedure didattiche dei singoli insegnanti) con un know how in buona parte passato, ma spesso non riesce ad aprirsi a sufficienza alla società che evolve e nemmeno prepara sufficientemente gli studenti per tale evoluzione.

La funzione della scuola dovrebbe, oggi, essere invece molto focalizzata su questo aspetto: non solo per passare nozioni, ma anche (e soprattutto) per formare all’ingresso nella società le nuove generazioni. Per poter assolvere appieno a questa funzione la scuola deve porsi sempre una domanda: per quale tipo di futuro sto preparando le prossime generazioni? 

Tale quesito,  parrebbe semplice da porsi, ma invece si scontra inevitabilmente con il concetto con cui abbiamo iniziato questa chiacchierata, ossia il panico morale. 

I giovani sono sempre stati forti vittime del panico morale, e questo fin da quando la categoria “giovane” è assurta come definizione di una fascia di popolazione specifica che osava fare richieste e osava mettere in discussione lo status quo. Il popolare “dove andremo a finire” che veicola la minaccia oscura di un tempo futuro in cui le vecchie generazioni (o le vecchie modalità) temono di non riuscire più a riconoscersi un posto o un ruolo attivo. 

Allora, al posto di aprirsi, dialogare, mettere al centro il futuro e sedersi al tavolo con tutti gli attori per poter formare al meglio chi ci abiterà, ci si arrocca demonizzando quel futuro. E se non è la scuola a prepararci alla complessità, al fatto che le vecchie categorie potrebbero non essere più adeguate per imbrigliare una realtà complessa, chi vi arriverà, per poterla governare potrà solo far conto sulla propria individuale capacità di resilienza, creatività e capacità di innovarsi. 

Prepararsi per un futuro diverso non vuol dire dunque rassegnarsi e lasciare la barca senza remi, ma implica piuttosto cambiare orizzonte e  sistema concettuale. Non possiamo più pensare ad una formazione strettamente professionale in un mondo in cui non sappiamo se quella professione avrà un posto così come l’abbiamo pensata fino a quel momento. E ciò nonostante continuiamo a fare progetti che diciamo innovativi perché abbiamo mandato i ragazzi a fare uno stage, senza preoccuparci a sufficienza del fatto che questa non può essere solo la spunta su una check list, ma che tale nuova competenza va integrata e fornita di senso, oltre che “criticizzata”. 

Dobbiamo quindi pensare a una formazione che alleni il pensiero critico, e creare interstizi pronti per gli innesti necessari che non siano vissuti come ferite. Questo significa pensare a un sistema educativo in cui l’aggiornamento professionale del personale docente non può  prescindere anche dal dialogo con gli studenti, portatori del mutamento. 

Un po’ come dicevo per le aziende o per i genitori, lo stesso vale per la scuola, dove gli studenti dovrebbero diventare parte attiva del processo formativo in cui gli adulti mettono a disposizione le cornici di pensiero, le cornici concettuali e anche i principi fondamentali per un vivere sociale ma devono saper accogliere come contenuti indispensabili ciò che dagli studenti arriva. Io nel mio piccolo, quando faccio formazione a scuola, in materia di digitale, mi pongo in quest’ottica. 

Ho una professionalità ibrida perché ho accolto gli innesti necessari per affrontare quel tema. Ma su quegli innesti, chiedo ai ragazzi di aggiungere le loro competenze, riflessioni, perplessità. Io fornisco le cornici affettive e di pensiero per leggere quei contenuti e rimandarli loro più arricchiti. Ma non posso pensare (in realtà lo spero) di non venire modificata anche io da ciò che arriva da loro.

Lo stesso vale per me. E quel che posso già dire è che – per quanto mi riguarda – già le tue risposte hanno modificato molte cose in me, chiarendomi molti concetti e parendo parecchi nuovi scenari. Ti ringrazio quindi davvero e ti auguro buon lavoro. Anzi: buona interoperabilità, da parte di tutti noi di 6memes!

Grazie e buon lavoro a voi!


PROF.SSA SONIA BERTINAT
BREVE PROFILO BIOGRAFICO


Psicologa Psicoterapeuta, cresciuta e formata in un’era analogica, sono approdata al digitale per pure passione e da autodidatta. La curiosità, caratteristica che fa dal fil rouge della mia vita personale e professionale, mi ha portato a conoscere e imparare, a camminare, in un mondo in cui non ero nata ma verso il quale sentivo una profonda attrazione.

Solo tardi, nel 2010, dopo aver cominciato a lavorare con le dipendenze comportamentali, sono riuscita a vedere una nicchia in cui far convergere una passione personale in una attività professionale.

Ho cominciato ad interessarmi della tecnologia come impatto nella vita delle persone, sul loro pensiero e sul loro modo di relazionarsi quando il medium digitale si frapponeva tra loro. Ma anche il concetto di dipendenza, in questo contesto, mi è sempre stato stretto e grazie ad incontri molto proficui con altri professionisti, sono riuscita a mantenere un’apertura positiva verso questo nuovo mondo. Un mondo con un linguaggio diverso, certo, ma in cui erano sempre le persone a decretarne i contenuti.

Come aiutare quindi le persone a destreggiarsi in questa realtà, come curare il linguaggio e le relazioni è stato il naturale passaggio successivo. Mi occupo di cyberbullismo, a contatto con le nuove generazioni con l’intento di poter fare da tramite, da ponte tra “vecchio” e “nuovo”. Comunicare che il modo in cui parliamo e ci relazioniamo con le persone nel digitale non può prescindere dal rispetto e da un uso corretto del linguaggio. La cura del contesto non può che rendere il contesto stesso un luogo non solo  più vivibile, ma anche utile e proficuo per la crescita di tutti noi.


CONTATTI


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA DELL’INTERVISTA 

(1) Cohen, S. (1972), “Demoni popolari e panico morale. Media, devianza e sottoculture giovanili”, 2019, Mimesis

(2) Bertinat, S., “Pericolo? No, a volte è solo panico morale”, sul Portale Edugamersfor Kids 4.0

(3) danah, b., “It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web”, 2018, Castelvecchi

(4) Shapiro, J., “Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale”, 2019, Newton Compton


CREDITS IMMAGINI

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