Smart Working e le nuove organizzazioni produttive: un futuro targato Internet of Things.

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Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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I Big Data e l’Internet of Things, come è noto, trovano applicazione in numerosi ambiti e producono innovazione foriera di prospettive future in tanti settori, dall’industria ai servizi.
L’innovazione portata dall’analisi dei dati e dalle tecnologie Internet of Things non coinvolge solo gli oggetti della produzione, ma anche il modus operandi di aziende e imprese e quindi la loro produttività. Si stima che il valore di Big Data e IoT equivarrà nel 2025 all’11% dell’economia mondiale. Un valore che riguarderà soprattutto proprio le attività produttive.

Ecco perché un’azienda dovrebbe investire tempo e risorse nei Big Data. Dal match di dati e dalla loro analisi possono derivare ad esempio informazioni utili ad anticipare la domanda dell’utente finale (e a dargli conseguente risposta). Attraverso l’utilizzo dei dati, le imprese possono gestire le informazioni in modo talmente proattivo da ottenere una profilazione precisa della clientela, migliorare la customer experience e intervenire tempestivamente per ovviare ai difetti di un prodotto, migliorarne l’efficienza, e ridurre così tempi e costi.

Se da questo punto di vista sono evidenti i benefici che l’innovazione targata Big Data e IoT può portare alle aziende, d’altra parte è interessante anche valutare come essa possa incidere sulla vita di chi lavora all’interno di un’impresa, un ente o un’azienda, e quindi di dirigenti e operatori, influenzando così la produttività.
A tal proposito citiamo il caso di Vodafone che ha deciso di adottare lo Smart Working, dando vita a un modello operativo basato sull’utilizzo di tecnologie digitali da parte dei dipendenti e finalizzato al telelavoro. Nel caso della compagnia telefonica, un dipendente su due (3.500 su 7.000) ha deciso di aderire facendo di Vodafone “l’esperienza italiana con il maggiore numero di dipendenti coinvolti nello Smart Working”.
Anche Barilla ha ideato il suo progetto di “lavoro intelligente”, affermando tra l’altro che entro il 2020 il lavoro degli impiegati potrà svolgersi da casa. O ancora BNL: con il Flexible Working ha creato un modo innovativo di concepire l’organizzazione produttiva e il lavoro del dipendente.

Queste tre case histories mettono in luce come, attraverso lo Smart Working, sia possibile ottenere diversi vantaggi. Si stima infatti un aumento della produttività delle aziende a cui si aggiungono l’abbattimento dei costi di gestione, l’influenza positiva sulla reputazione dell’impresa, il minor spreco di energie, il maggior tempo libero e l’alto livello di soddisfazione dei lavoratori.
Ciò ha un significativo riflesso anche sui metodi valutativi: con lo Smart Working, il lavoratore potrà essere giudicato sugli obiettivi raggiunti, sui servizi forniti, sui tempi rispettati, al di fuori delle logiche tradizionali che erano basate in primo luogo sulla fisica presenza oraria sul posto di lavoro.
Una vera rivoluzione insomma, soprattutto dal punto di visto umano: se lo Smart Working diventerà una realtà diffusa cambieranno profondamente il modo di lavorare, di vivere e anche un’importante fetta della vita di relazione di ciascuno.

Se è vero che le nuove tecnologie agevolano il lavoro rendendolo più flessibile (pensiamo ad esempio alla conciliazione tra cure parentali e vita professionale), dall’altro lato ci sono invece mansioni destinate a essere sostituite proprio dall’introduzione dell’intelligenza artificiale. Durante il summit “World Economic Forum 2016” si è annunciato che entro il 2020 si perderanno circa 5 milioni di posti di lavoro nel mondo. Altra testimonianza di questa “disruption” lavorativa è riportata da uno studio condotto dall’Università di Oxford, secondo il quale, nei prossimi 10 anni, il 47% delle professioni potrebbe scomparire; o ancora, ecco in questo articolo le 10 mansioni che potrebbero non esistere più entro il 2022.

Nonostante questo scenario “apocalittico”, esistono limiti all’automazione che rendono evidente come non tutte le tipologie di lavoro potranno essere svolte dalle macchine. Si dovrebbe parlare piuttosto di inversione, di nuove funzioni, skills e competenze che prenderanno il posto di quelle vecchie.
Si tratta di cavalcare l’onda del cambiamento di questa rivoluzione industriale 4.0 e di intraprendere percorsi nuovi che porteranno ad un’integrazione sempre più massiccia e massiva delle nuove tecnologie nei processi produttivi. Ci attende forse l’avveramento di quell’uomo nuovo dialogante con la macchina  che tanta cultura dello scorso secolo aveva prefigurato: occorrerà (tutti) lavorare perché conservi la sua umanità… per un uomo digitale in una rete sociale!