Visibilità e digitalizzazione: un’interoperabilità culturale ancor prima che tecnologica per aiutarci a vedere più lontano…

Natalia Robusti
Natalia Robusti

Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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Visibilità e Digitale: due mondi a braccetto, anzi: uno solo!

In un momento in cui il nostro maggior nemico è di fatto “invisibile” – se non dopo aver generato e causato un’infinità di dolore e conseguenze terribili – il concetto stesso di visibilità diviene ancor più rilevante ed essenziale, così come è davvero cruciale la possibilità che l’innovazione (medica, tecnologica e sociale) ci può offrire nell’aiutarci a dare forma e sostanza a ciò che altrimenti sfugge al nostro sistema percettivo cosiddetto “naturale”.

Come abbiamo già visto insieme a proposito di innovazione, uno dei termini – o meglio dei concetti – capace di rappresentare sia in presenza (in quanto formato di interscambio) che in assenza (in quanto nucleo di senso) il concetto di interoperabilità, è proprio l’aggettivo “digitale”.

E quindi – sempre a proposito di Visibilità – vorrei rileggere insieme le ricostruzioni etimologiche che Treccani propone rispetto a questo termine.

Con una precisazione: lo spunto per questa riflessione mi è venuto da un corso che proprio in questi giorni sto frequentando e che consiglio agli appassionati del tema, “Umano digitale”. È erogato in modalità Mooc dall’Università di Urbino, è completamente online e gratuito e in questi giorni di attesa potrebbero essere l’ideale per frequentarlo.

Le definizioni dell’aggettivo “digitale”, dicevo, sono due.

La prima, dal latino digitalis, derivazione di digĭtus ci riporta al «del dito, delle dita; fatto, compiuto con le dita (…).»

La seconda, ci arriva invece dall’inglese dall’inglese digital, derivazione a sua volta di digit (e qui si ritorna alle origini latine di digĭtus), e ci parla di «cifra, ovvero di un sistema di numerazione».

Prosegue, questa definizione, raccontandoci – tra le altre cose – che il termine si contrappone in informatica alla parola analogico, e si attribuisce “a dispositivi che trattano grandezze sotto forma numerica, cioè convertendo i loro valori in numeri di un conveniente sistema di numerazione (di norma quello binario, oppure sistemi derivati da questo)”.

Cosa accade, dunque, in questo processo di conversione digitale di cui sentiamo continuamente parlare e che – in ogni sua istanza – ci riconduce al nostro senso del tatto (digĭtus) che in questi giorni ciascuno di noi deve purtroppo mortificare?

In sintesi (per estrema semplificazione), possiamo ricordare che, attraverso tale sistema di codifica (o meglio, ri-codifica), una mole sterminata di informazioni altrimenti rappresentate – quali fotografie, testi scritti a mano, filmati, conteggi, mappe, funzioni – vengono tradotte in un codice che, a sua volta, le ri-converte in nuove immagini, testi, suoni etc., ma questa volta disponibili e replicabili, usabili e soprattutto visibili non solo in un’altra infinità di forme e formati (rigorosamente digitali), ma soprattutto attraverso una miriade di dispositivi che li rendono usufruibili, percepibili – perfino reali e “toccabili” con mano – in real time.

Un esempio straordinario di questa conversione di dati, informazioni, dispositivi ed elementi di realtà, è dato dalla possibilità che la stampa 3D ci sta regalando nel produrre in tempo record e in ogni luogo nuovi dispositivi altrimenti introvabili e letteralmente salza-vita:

“Da Hong Kong a Brescia, l’emergenza coronavirus ha stimolato la creatività di piccoli e grandi laboratori di stampa, nella più grande chiamata alle armi nella storia dell’innovazione tecnologica.”

Grazie alla loro potenza, l’insieme di queste tecnologie – a maggior ragione se messe a sistema – consentono a noi da un lato di allargare il nostro campo visivo (penso ad esempio alla possibilità che hanno i telescopi satellitari di trasmetterci le immagini digitalizzate del cosmo che stanno solcando) e dall’altro di acuire e verticalizzare la nostra messa a fuoco della realtà – penso ai nuovi potentissimi microscopi e alle recentissime tecnologie di imaging, anche in campo medico, ma non solo.

Ecco dunque che tale processo di digitalizzazione, affiancato alla creazione di altrettante interfacce (dispositivi mobile, device etc. – insomma, le cosiddette “Macchine”), si realizza attraverso la più grande opera di traduzione immaginabile compiuta ad oggi dall’Uomo, che è riuscito a passare da una visione frammentata e a pattern del mondo a una sua versione continua, scalabile e – appunto – interoperabile.

Non si tratta, tuttavia, di una così grande novità dal punto di vista cognitivo ed evolutivo. In questo senso voglio citare il prof. Alessandro Bogliolo (docente del sopracitato corso) che in un’altra occasione ci spiega che la rivoluzione digitale:

“(…) fonda le sue radici addirittura nella Preistoria (…)” non è “una vera e propria rivoluzione, ma si tratta di un’evoluzione che, per l’appunto, segue la storia dell’uomo in quanto poggia le sue basi su due capacità estremamente umane.

La prima è quella di rappresentazione simbolica, che ci consente di avere una storia, una narrazione, un linguaggio e anche, perché no, di fare lavorazione automatica delle informazioni.

L’altra è invece la capacità di pensiero computazionale, che ci consente di concepire dei ragionamenti e dei procedimenti complessi e costruttivi per dare vita alle nostre idee e per fare innovazione.”

A questo punto vorrei fare un passo indietro, tornando agli articoli del blog dedicati l’anno scorso alla complessità, e ricordare a noi stessi che – in tale iper-complessità – parlare oggi di interoperabilità (traslata dal piano tecnico verso quello, chiamiamolo così, più umanistico) vuol dire procedere secondo una logica evolutiva indispensabile.


Vedere la realtà – e distinguerla – a ragion veduta!

La complessità che ci circonda è ormai tale che non possiamo affrontarla se non (anche) attraverso sistemi e processi di interazione automatici (ci spiega mirabilmente in questo articolo il filosofo Cosimo Accoto) processi che necessitano non solo la nostra istruzione prima e avvio poi, ma che hanno bisogno anche e soprattutto di controllo in itinere, per farlo, come si dice, a “ragion veduta”.

Per capire la portata del tema vorrei partire da un esempio molto semplice, ricordando a noi stessi, innanzitutto, che una cosa è visibile quando (in sintesi estrema), la possiamo DISTINGUERE DAL RESTO e quindi individuarne l’esistenza.

Un esempio per tutti: la luce, il cui spettro visibile ai nostri occhi non è esaustivo delle varietà delle sue onde. Possiamo quindi affermare che, in primo luogo, per vedere qualcosa dobbiamo essere attrezzati con un sistema percettivo capace di riconoscerne l’esistenza.

E qui il salto tecnologico c’è, eccome.

Se infatti Calvino magnifica nella sua lezione sulla Visibilità la capacità immaginativa tutta umana, che ci consente di “immaginare” ciò che non è (ancora o non più) reale, ecco che la rivoluzione digitale – seguendo la natura evolutiva dell’Uomo – ci sta portando ad allargare il nostro concetto di realtà – sia verso l’estensione che verso la concentrazione dei dati – e soprattutto ci consente di renderli interoperabili, cioè di farli “lavorare” insieme, andando ben più in là del semplice “unire i puntini”…

Quindi essere dotati di un sistema in primo luogo percettivo (cioè capace di rilevare i segnali  e unirne i famosi puntini) è più che mai cruciale, e se le interfacce “artificiali” di oggi ci consentono di  andare oltre i nostri limiti naturali sia fisici (il nostro corpo) che mentali (la nostra capacità logica e computazionale), questo è un indubbio vantaggio.

Lo sarebbe stato, ad esempio, negli anni del colera, in cui, come riportato in questo articolo, uno scienziato si accorse, disegnando su una cartina la mappa delle persone infettate dalla malattia, che la sua evoluzione era collegata alla disposizione sotterranea della rete fognaria cittadina. (Un po’ come è accaduto in questo periodo con i grafici che gli scienziati ci hanno mostrato rispetto all’evoluzione della pandemia che stiamo tragicamente vivendo).

Il pensiero di quello scienziato, dunque, aveva reso potenzialmente Visibile – facendo inter-operare tra loro informazioni all’apparenza non collegabili, come il numero dei malati, la loro malattia in successione e l’andamento della rete fognaria nella città – l’evoluzione della malattia del colera, rendendone di conseguenza individuabile l’origine e predittibile l’evoluzione.

E qui faccio un piccolo inciso: se pensiamo ad esempio alla rapidità con cui la Natura è interoperabile – ad esempio proprio a livello di virus, capaci di saltare da specie a specie per poi diffondersi nel mondo – ecco allora che abbiamo un’idea immediatamente Visibile della sproporzione tuttora esistente tra la capacità adattiva dell’Uomo e quella dell’ambiente circostante.

Per questo, oggi, in quanto Umani, dobbiamo non solo (o non tanto) cercare di rendere intelligenti le Macchine che inventiamo, istruiamo e accendiamo, ma dotarci noi stessi di migliori strumenti di traduzione – anche tecnologici – rendendoci più aperti e disponibili all’interazione con la “Macchina”, perché, citando di nuovo Alessandro Bogliolo:

(…) quella che oggi chiamiamo tecnologia digitale non è nient’altro che l’espressione del momento di queste capacità tutte umane, sulle quali si basano la nostra storia e il nostro futuro.

La nostra storia perché, grazie alla rappresentazione simbolica, abbiamo una cultura, una capacità di raccontarci cose da tramandare di generazione in generazione; grazie invece al pensiero computazionale sappiamo fare innovazione, trasformare questa creatività e questa cultura in qualcosa che fa evolvere la nostra capacità di essere umani e, dunque, di relazionarsi con il mondo.”

Al prossimo articolo, dunque, in cui – lo speriamo tutti – potremo parlare di Leggerezza con notizie migliori di quelle attuali che ci circondano!

Natalia

PS: se vi interessa, nell’attesa e a proposito di visibilità, potete trovare QUI  l’articolo su una nuova lente, Mojo, che promette una visione della realtà capace di integrare perfettamente la nostra vista con le informazioni digitali sul mondo che ci circonda. 

 


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