Rapidità e digitale: la spinta indispensabile all’innovazione passa per un nuovo concetto di tempo. Di Natalia Robusti.

Natalia Robusti
Natalia Robusti

Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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Il tempo, un marker di produttività?

Calvino definisce la rapidità in base a molte possibilità e varianti, soprattutto in termini di narrazione. Ma esordisce la sua lezione con il racconto di una “vecchia leggenda”.

“Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori.

Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. ‘Ho bisogno di altri cinque anni’ disse Chuang-Tzu.

Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.”

La domanda che viene spontanea, alla fine della lettura della leggenda (e nel pieno della nostra “fase due”, che deve giocoforza modularsi su una serie di stop and go) è questa: il pittore, per fare quel magnifico granchio, ci ha messo un istante o dieci anni?

E cosa è stata più importante: la sua crescita spirituale, personale e perfino edonistica realizzata in quel lungo periodo di attesa (in una sorta di processo di deep learning del tutto umano) o piuttosto l’abilità d’esecuzione acquisita in quell’ultimo, fatidico gesto?

Ecco che il tempo – come sempre – si dispone ai nostri occhi come una relazione, o meglio, una proporzione. La Rapidità (così come la velocità) sono del resto termini relativi e confrontano tra loro metriche diverse per attribuirvi un valore univoco.

E proprio in questo senso – oggi più che mai – la rapidità sembra essere un marker essenziale e assoluto, invocato e celebrato dai nostri tempi, spesso associato a un altro termine: reattività (e dunque produttività che aumenta) possibilmente in real time. E questo vale sempre, prima, durante e forse anche dopo la pandemia.

Ne abbiamo due esempi concreti quasi tutti i giorni, anche oggi, in termini di “consegne”: i “rider”, che consegnano il cibo a casa nostra destreggiandosi spesso pericolosamente tra cattive abitudini dei datori di lavoro e dei consumatori  e Amazon con il suo sistema a volte anche troppo “intensivo” di reperimento e consegna delle merci.

D’altra parte, come ci ricorda Calvino:

“Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini.”

Ma se, nella leggenda del granchio, il “tempo” dell’artista – che fosse veloce o lento – era tutto concentrato nell’attesa feconda di quell’unico, meraviglioso, perfetto granchio, oggi a noi – artisti, tecnici o uomini e donne comuni che siamo – quello che invece viene spesso chiesto, per essere “rapidi” nella performance , è di disperdere il nostro tempo in mille rivoli, azioni, impegni e consegne…

Il che non necessariamente deve essere considerato positivo, come illustra questo articolo sul cosiddetto multitasking:

“In qualunque ambito oggi, sia professionale che privato, la sola idea di non essere multitasking fa sentire esclusi e mancanti di una qualità considerata praticamente indispensabile.

Elasticità mentale, capacità di gestire più attività contemporaneamente, abitudine alle distrazioni generate dall’arrivo di email, messaggi, chat e telefonate ci sembrano tutte abilità essenziali per potere lavorare nel Terzo Millennio.

Eppure, recenti studi dimostrano come questa caratteristica sia altamente sopravvalutata e possa anzi rivelarsi dannosa per la nostra produttività.”

Quello che infatti fa la differenza non è la quantità (e la velocità) delle azioni da percorrere nei vari step successivi con la speranza di arrivare (primi) al traguardo, quanto la qualità e la rapidità di percorrenza delle connessioni tra le stesse.

Come a dire: la qualità delle “scorciatoie” che sappiamo creare e percorrere… E credo che di scorciatoie, in questi mesi, ne abbiamo tutti percorse parecchie, sia in avanti che all’indietro.

Il che ci porta al famoso granchio: prima di essere veloci in una strada (non lineare) da percorrere, bisogna conoscerla a fondo, in lungo e in largo. E in questo senso, cosa, meglio dell’innovazione digitale, potrebbe venirci in soccorso, così da essere sì rapidi, ma non frenetici?

Così da smettere di correre e rincorrere tutto e tutti, avvantaggiandoci di ciò che la tecnologia ci consente di fare (e vivere), come si dice, da remoto?


Muoversi in avanti (e indietro)…

Se moltiplichiamo il problema delle performance (che, inutile negarlo, ognuno di noi vive sulla sua pelle anche in questo periodo, in cui la posta in gioco per ciascuno è ancora più alta del solito) per il numero di ciascun cittadino di una comunità, ecco che la questione – a proposito di Interoperabilità Uomo-Uomo e Uomo-Macchina – si presenta, per dirla metaforicamente, in salita.

Ma, anche questo caso, la chiave di volta è il movimento, a dispetto di qualsivoglia lookdown. Che non vuol dire per forza “frenetico”, ma magari – perché no? – semplicemente fluido…

Allargando il campo di analisi del tema a livello più istituzionale, come rivela questo articolo, la fotografia sullo stato dell’arte della PA nel nostro paese non è proprio esemplare:

“la Relazione 2019 al Parlamento e al Governo sui livelli e la qualità dei servizi offerti dalle Pubbliche amministrazioni centrali e locali a imprese e cittadini mette in luce un gap importante tra PA centrale e Locale, rilevando per quest’ultima un livello di digitalizzazione medio-basso, il che pone l’Italia tra gli Stati ‘non-consolidated eGov’, cioè quelli che non sfruttano appieno le opportunità fornite dalle tecnologie digitali.”

E che noi, come sistema paese, non siamo proprio in prima fila, ce lo ha dimostrato anche un recente studio:

“La società digitale è ormai realtà e nei prossimi anni il processo si intensificherà, considerati i cambiamenti radicali che si stanno mettendo in moto con la diffusione dell’Intelligenza artificiale, della robotica, della realtà aumentata, dei big data.

(…) Di fronte a questi cambiamenti il nostro Paese, pur avendo eccellenze, ha un ritardo drammatico. Secondo l’indice internazionale che misura il livello di competenze digitali, nel 2018 l’Italia si piazza quartultima fra i Paesi dell’Unione Europea, seguita solo da Bulgaria, Grecia e Romania.”

Non si tratta solo di Pubblico, purtroppo, ma di qualcosa di più strutturale:

“La percentuale di Pmi che vendono online è dell’8% (dopo di noi solo la Bulgaria). Spagna e Germania arrivano rispettivamente al 20% e al 23%.

(…) Il problema non è solo la scarsa diffusione dei mezzi digitali. Ancora oggi solo un quarto dei lavoratori usa quotidianamente software da ufficio (elaborazione testi o fogli di calcolo), e, secondo la già citata indagine sulle competenze degli adulti (PIAAC), è dovuto al fatto che oltre il 40% dei lavoratori non è nelle condizioni di farne un utilizzo efficiente.”

Come metterci dunque al pari, se possibile RAPIDAMENTE?

Il report citato riconduce, come sempre, alla scuola e alla formazione, richiamando addirittura il concetto di “Scuola dell’obbligo «digitale»”.

E su questo siamo d’accordo tutti, in particolare il professor Piero Dominici, da noi intervistato qualche mese fa, che parla della scuola e degli enti di formazione come di un vero e proprio punto di svolta per il nostro futuro.

Ma se io – dall’interno (almeno in parte) di questo mondo cosiddetto “digitale” –  dovessi individuare un altro punto cruciale, soprattutto per colmare un gap culturale creatosi e di difficile soluzione (vista la rapidità di flusso evolutivo in cui tutti siamo immersi è già difficile rimanere aggiornati, figuriamoci formarsi da zero) lo individuerei nel DESIGN.

Sembra strano, ma non lo è, e qui torniamo al granchio di cui ci ha parlato Calvino, che poi è una delle più belle leggende che io abbia mai letto.


Il disegno del tempo…

Si chiama – è da un po’ che se ne parla, ma secondo me bisognerebbe farlo di più – Design Thinking ed è uno snodo cruciale, a mio parere, di cui tener conto soprattutto in termini di interoperabilità in fase di progettazione dei sistemi digitali di interazione Uomo-Macchina, in quanto:

“è un processo di innovazione che prevede una forte attenzione per la dimensione umana delle persone in quanto deriva da una comprensione empatica di tutti gli insight dell’utente. In un contesto moderno, dove il digitale regna sovrano e le interazioni tra persone sono sempre più ridotte, risulta fondamentale il contributo del Design Thinking per la progettazione di esperienze digitali “umane”.

Facciamo un passo indietro, e riprendiamo il concetto di Interfaccia illustrato in questo articolo di Giulio Destri.

Se partiamo dal presupposto che ogni atto che compiamo (simbolico o concreto che sia) non è altro che un percorso che conduce da un punto/concetto A ad un altro, B, e se prendiamo come oggetto della nostra discussione il tragitto da percorrere velocemente da un punto all’altro, e se ancora vogliamo che lei, la Macchina (quella digitale, interoperativa, rapidissima e millemila cose in più) ci conduca da A a B molto più rapidamente di quanto possiamo fare noi Umani, allora beh…

Allora il tragitto che la Macchina ci propone deve essere CHIARO, FACILE DA PERCORRERE e COMPRENSIBILE nel suo intero tracciato, oltre che veloce e sicuro.

Di più: aggiungerei che deve essere pure bello e panoramico, così che noi l’attraversiamo più volentieri e anche il nostro, di tempo, ci passi più velocemente e sensatamente.

Il che – francamente – soprattutto se pensiamo a servizi digitali che avrebbero il compito di sburocratizzare le cose (tra enti, amministrazioni, sportelli online etc.), accade molto di rado.

In questo senso io credo che il DESIGN debba riprendere un posto d’onore anche nel Pubblico, visto che i Privati lo hanno invece intercettato da tempo, con le loro chat umanizzate, le interazioni gamificate e i loro carrelli d’acquisto che conducono in un battibaleno alle nostre carte di credito…

Vorrei quindi chiudere con un’ultima riflessione: questa del design, e dello stile, è una competenza tutta umana. Forse è una delle poche che ci è rimasta come unicum di specie e in cui siamo ancora imbattibili.

Gli studi sulle performance delle intelligenze artificiali nel riconoscere un’immagine da un’altra (laddove le differenze sono minime) lo dimostrano ancora oggi.

Ed è quindi Lei, la Creatività, che dovrebbe entrare di più nell’area di gioco dell’Innovazione, così che le soluzioni digitali possano

“valorizzare l’unicità delle persone, integrarsi perfettamente nella loro vita e amplificare gli aspetti positivi della natura umana.”

Perché

“Il Design Thinking affronta questa sfida creando valore attraverso la modulazione dell’esperienza digitale, che viene arricchita dalla sensibilità del “human touch”.

E qui, come per magia – mi riconnetto all’evento U-Mano. Come dire: tutto si lega!

Alla prossima: parleremo di Esattezza.


CREDITS IMMAGINE COPERTINA (rielaborata)

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