Molteplicità (parte due): ode all’incompiuto? Letteratura e modelli automatici, algoritmi e punti di vista.

Natalia Robusti
Natalia Robusti

Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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Uno nessuno o centomila?

Riprendiamo il tema della molteplicità da uno dei tanti fili narrativi lasciati aperti nel precedente post: l’incapacità a concludere che cita Calvino nella sua lezione riferendosi non solo alle opere di Carlo Emilio Gadda, ma anche – tra gli altri – a quelle di Robert Musil e Marcel Proust.

Il seme dell’incompiutezza – come abbiamo già visto molto più prosaicamente nel nostro primo articolo a proposito del buffet sterminato della colazione di un Gran Hotel 😉 – sta infatti proprio nella varietà delle unità che compongono la molteplicità, tale da essere in “perenne espansione”.

Dal punto di vista letterario, Calvino cita “L’uomo senza Qualità” di Musil, in cui l’autore dà conto della conoscenza stessa come della consapevolezza “dell’inconciliabilità di due polarità contrapposte”, la prima chiamata di volta in volta esattezza, matematica, spirito puro, la seconda definita ora “anima ora irrazionalità ora umanità ora caos”…

Non diverso è l’approccio al medesimo tema di Proust e “La ricerca del tempo perduto” in cui “ non certo per mancanza di disegno (…) “il mondo si dilata fino a diventare inafferrabile” e “va infoltendosi e dilatandosi dal di dentro in forza del suo stesso sistema vitale.”

Sin qui Calvino sembra procedere in una sorta di ode all’incompiutezza, nella vertigine delle sue strutture in abisso tendenti all’infinito. Ma non è così. L’autore lo dice a chiare lettere:

“Tra i valori che vorrei fossero tramandati al prossimo millennio c’è soprattutto questo: una letteratura che abbia fatto proprio il gusto dell’ordine mentale e della esattezza, l’intelligenza della poesia e nello stesso tempo della scienza e della filosofia, come quella del Valery pensatore.”

Calvino, a tal proposito, approda a Jorge Luis Borges, perché:

“(…) ogni suo testo contiene un modello dell’universo o d’un attributo dell’universo: l’infinito, l’innumerabile, il tempo, eterno o compresente o ciclico (…)”

Parliamo di regole e modelli, dunque, e della natura combinatoria del mondo, ancor prima che della letteratura.

 


Esercizi di stile (e di liste)

Ed ecco che Calvino, nella sua ultima lezione compiuta – la penultima di sei, di cui quella conclusiva non vide la luce, se non postuma – anticipa termini che oggi ci circondano da ogni dove:

“Direi che oggi la regola dello ‘scrivere breve’ viene confermata anche dai romanzi lunghi, che presentano una struttura accumulativa, modulare, combinatoria”.

L’autore racconta mirabilmente di un approccio capace di inquadrare la molteplicità in una materia di senso che, anche se non è compiuto appieno, è iniziato e ha un suo percorso in qualche modo tracciato.
Nel farlo, predilige che una struttura che tuttavia non sia automatica, ma anzi capace di contemplare in sé gli aspetti irrazionali, creativi e poetici tipici della natura umana.

Attraverso questo salto culturale, ancor prima che semantico, Calvino – citando Raymond Queneau – ci parla di “libertà compositiva del testo (che) lungi dall’essere mortificata, viene invece esaltata”.

E immediatamente ci riporta a una delle opere più celebri di Queneau, Esercizi di Stile, in cui l’autore si cimenta nella virtuosa collezione di 99 racconti della medesima breve storia rivisitata ogni volta in uno stile differente, riuscendo a rappresentare la molteplicità attraverso un numero finito, seppure consistente, di varianti.

Si tratta di uno sguardo simile a quello proposto da Umberto Eco in merito al problema della catalogazione del sapere, individuando nella “Vertigine della lista”  la natura di ogni forma di catalogazione che “suggerisce quasi fisicamente l’infinito, perché di fatto essa non finisce”.

Si apre così una finestra spazio temporale sulla natura paradossale della molteplicità che, a partire da uno scorcio parziale, rende visibile l’assoluto.

 


L’autodeterminazione della molteplicità (e del palato).

Torniamo ora all’esempio un po’ naïf  fatto nella parte prima del nostro discorso sulla molteplicità, ovvero al buffet sterminato delle colazioni del Grand Hotel.

Immaginiamo che – in uno sforzo di volontà obiettivamente incompatibile con lo stile ozioso di una vacanza degna di questo nome – l’approccio al nostro breakfast sia stato diverso rispetto a quello standard, dettato dalla nostra golosità e dalle nostre abitudini alimentari.

Proseguiamo nella nostra simulazione immaginando di avere invece preventivamente stilato in maniera “cumulativa, modulare e combinatoria” una lista dei vari piatti, suddividendoli secondo le varie tipologie di cibo (dolce, salato, agrodolce…), di ingredienti (locali o esotici, dietetici o calorici…) e di trattamento del cibo stesso (conservato o fresco, cotto o crudo)…

E che poi – in base a varianti del tutto personali e contingenti, ovvero il nostro gusto, la curiosità e la “salubrità” degli ingredienti – abbiamo selezionato dalla lista un numero di piatti sì limitato, ma esteso a ogni variante di cibo, e che di questa sotto-lista abbiamo infine assaggiato tutto quello che il nostro palato e la nostra pancia potevano ingurgitare.

A quel punto, ne sono certa, la nostra colazione sarebbe stata sì più faticosa e meno spontanea, ma sarebbe risultata anche più varia e gustosa, rappresentando un’esperienza a suo modo appagante, perlomeno rispetto alla molteplicità.

E se il Grand Hotel non fosse stato in una località per noi facilmente raggiungibile, ma si fosse trovato dall’altra parte del mondo, rappresentando un’occasione irripetibile per assaggiare sapori altrimenti introvabili, magari la fatica sarebbe valsa la pena.

E comunque: siamo sicuri che – nel momento in cui di fronte a un evenienza simile non interveniamo attivamente e consapevolmente nel momento della selezione – sia proprio solo il caso, a fare da padrone?
Siamo certi che, di fronte alla molteplicità di scelte possibili, l’agire per istinto o secondo il caso ci porti a risultati “vergini” da ogni calcolo? O non ci esponga al rischio, piuttosto, che sia qualcosa o qualcun altro a decidere per noi?

Nel caso del buffet la vicinanza del piatto e del suo tavolo alla nostra postazione, ad esempio, o la scelta fatta all’ultimo momento del nostro vicino di tavolo che ci ha inavvertitamente condizionato, o ancora la dislocazione dei cibi scelta accuratamente da un cameriere esperto in merchandising che ha disposto in piatti in maniera economicamente conveniente per il Gran Hotel (così, tanto per pensare male!).


Chi decide, cosa e perché?

Stiamo ragionando per paradossi, certo. Eppure…

La molteplicità – e le nostre possibili reazioni a essa, che da un lato possono inibire i nostri processi di scelta e dall’altra esporci a un rilancio continuo destinato all’inconcludenza – non sta certo ferma lì ad aspettare le nostre scelte. Se non decidiamo noi come comportarci di fronte alla sua pianura sterminata di evenienze, altri (o altro) lo faranno prima o poi al nostro posto. È inevitabile.

Facendola scomparire come possibilità di scelta, ad esempio, perché abbiamo atteso troppo nel deciderci. Come per quelle opportunità che, se non le prendi al volo, qualcuno ti sfila da davanti al naso.

O facendo leva sulle nostre motivazioni più irrazionali e contingenti, che non coincidono necessariamente con i nostri effettivi interessi, reali o percepiti che siano. Come accade per quelle scelte di fuga d’impulso innanzi a situazioni pericolose, in cui magari scappare è la soluzione più rischiosa. O, ancora, travolgendoci alle spalle a tradimento piuttosto che davanti in uno scontro frontale, come accade per quegli eventi complessi di cui non abbiamo saputo (o potuto) percepire per tempo l’avvento, tipo quegli investimenti improvvidi (di risorse o tempo) in cui siamo caduti in pieno per non aver saputo orientarci in tempo?

Perché – uscendo dalle considerazioni generali sul tema, e tornando al concreto – è proprio nel nostro panorama quotidiano che questa molteplicità-complessità sta facendo danni, infilandosi nel “vuoto decisionale” – questo sì, paradossale – cui la stessa molteplicità ci espone.

È in questa precisa direzione – ovvero quella di filtrare ad hoc la molteplicità a monte – che si sta dispiegando la macchina comunicativa e sociale della contemporaneità, in termini sia di consumo che di consenso. Sarà un bene? Sarà un male?
La complessità – ricordiamolo – non è mai un problema in quanto tale, ma lo è sempre in proporzione alla nostra capacità di elaborazione delle informazioni che la stessa raccoglie in maniera più o meno accessibile.

La risposta a questa domanda, quindi, è: dipenderà dalla nostra disponibilità o meno nell’interrogarci e riflettere su temi all’apparenza ostici come questo, cercando di trovare – assieme ad altri – qualche bussola affidabile in questo viaggio.
Perché, stiamone certi, in tanti si stanno già adoperando nell’applicare al posto nostro metodi capaci di oltrepassare il senso del limite generato dall’inattingibile varietà del mondo attraverso strutture cumulative, modulari e combinatorie, prediligendo strutture automatiche capaci di manipolarci per bene senza che ne accorgiamo.


Le gioiose macchine da guerra

Alla fine di questo meme mi sono divertita a selezionare alcuni esempi già attuali di come altri gestiscono la molteplicità al posto nostro, servendoci su un vassoio all’apparenza d’argento tutta una scelta fatta e compiuta di deliziosi bocconcini avvelenati.
La panoramica che ho avuto davanti agli occhi è stata anch’essa portatrice di molteplici punti di vista :-).

Il primo esempio che voglio fare è quello della selezione a monte delle informazioni che ci arrivano a fronte di un panorama sterminato di possibilità.
Quello che in sociologia si chiama “agenda setting”  si estende oggi non solo ai media tradizionali, ma a tutti, e in particolar modo ai risultati dei vari motori di ricerca. Il tutto per riportarci una selezione di risultati che – in base a filtri arbitrari dei vari algoritmi di ricerca – ci rendono visibili o meno alcune informazioni, mettendole in primo piano o censurandole nei fatti.

Alcuni di questi algoritmi li incrociamo tutti i giorni e fanno parte della nostra involontaria brigata di aiutanti quotidiani nella gestione della molteplicità delle fonti:

  • PageRank, l’algoritmo di ricerca di Google, che selezione ordine, pertinenza e preminenza dei risultati delle nostre ricerche, magari anche in base alla nostra geo-localizzazione.
  • EdgeRank, l’algoritmo del news Feed di Facebook che decide chi e cosa dobbiamo vedere o meno nella nostra bacheca social.
  • Ad Rank, l’algoritmo di AdWords, che gestisce la visualizzandone dell’advertisting di Google nei nostri dispositivi online.

Il secondo esempio riguarda la veridicità o meno delle informazioni che ci arrivano e di come, se gestite ad hoc, anche le Fake News più improbabili ci arrivano direttamente sulle nostre pagine social senza che nemmeno le abbiamo ricercate.
E non si tratta nemmeno in questo caso di una novità: le cosiddette bufale risultano databili già dal medioevo. Tra queste citiamo “quella che vedeva l’imperatore Costantino miracolosamente guarito dalla lebbra da papa Silvestro e che, in segno di gratitudine, si era convertito al cristianesimo e aveva donato un terzo del suo impero alla Chiesa.”

Passiamo poi al “modo” con cui le informazioni ci vengono presentate, attraverso ad esempio l’uso più o meno spericolato di trucchi e balocchi. I criteri, in questo caso, sono quelli dell’usabilità che – in nome di una nostra presunta o reale facilità di navigazione – dirigono quasi tenendoci per mano non solo la direzione del nostro sguardo – decidendo cosa e come mettere ad esempio subito in alto a sinistra e cosa dopo – ma anche del nostro pensiero, utilizzando alcuni dei nostri processi di decifratura semplificata del mondo.

Un esempio suggestivo è dato dal potenziale uso ad hoc delle immagini parassita, qui così ben descritte dal professor Paolo Schianchi:

“Le immagini parassita sono tutte quelle raffigurazioni talmente annidate in noi da non accorgerci della loro esistenza. Per fare un esempio si prenda un uomo barbuto e gli si scatti un primo piano. Cosa vedo? La pubblicità di un prodotto per la cura del viso? Un’immagine di moda dedicata agli hipster? E se gli mettiamo un turbante in testa che accade? Diventa immediatamente un terrorista, senza alcun margine di dubbio. Si comportano come quei gesti o quelle parole che tendiamo inconsapevolmente ad associare.”

Arriviamo infine alle automatizzazioni, con alcune pratiche ormai consolidatissime, quali:

La pubblicità comportamentale che fa leva sulle nostre emozioni
“Una storia vi ha commosso? Una notizia ha catturato la vostra attenzione più delle altre? Nelle redazioni dei più grandi giornali ed emittenti del mondo ne stanno tenendo conto, investendo in tecnologie che possano leggere le emozioni degli utenti per trasformarle in contenuti personalizzati.
Il tutto attraverso spot differenti a seconda degli stati d’animo e contenuti personalizzati.”

Il marketing automatico attraverso software
“I software di marketing automation registrano le attività online tenute da una persona dal momento in cui entra in contatto con l’azienda, generalmente tramite un modulo di contatto. Da questo istante, il software è capace di registrare tutte le attività che questa persona compie sul sito dell’azienda, spedire una sequenza programmata di email a questa persona a seconda delle attività compiute, dare un punteggio a questa persona a seconda delle attività compiute (…) in modo da comprendere quanto è attiva.”

E questi sono solo esempi riferiti alla comunicazione e al marketing, lasciando da parte il mare steminato degli algoritmi decisionali.
Ma se pensiamo il tutto in termini che so, di informazione economica e politica, culturale ed etica, e moltiplichiamo il problema all’ennesima pensando a come tali attività hanno già invaso il nostro quotidiano, allora è chiara una cosa, semplice, lineare e per niente complicata, né da dire né da capire.

Ovvero: se non aumentiamo la nostra capacità di interagire con la molteplicità e la complessità del mondo, sarà proprio il mondo a semplificare noi!
Siamo proprio sicuri di voler correre il rischio, magari per “la briga” di fare per tempo un elenco di dolci e bevande? 🙂 🙂 🙂

PS: un ultimo consiglio spassionato, anzi no, pensandoci meglio, decisamente convinto: seguite il lavoro del professor Piero Dominici. Troverete indicazioni preziose su come:

recuperare le dimensioni complesse della complessità educativa: l’empatia, il pensiero critico, una visione sistemica dei fenomeni, l’educazione alla comunicazione, oltre a dimensioni volutamente rimosse, come l’immaginario e la creatività. Si può fare solo abitando i confini e le tensioni.

 

complessità quotidiana