Come cambia il mondo del lavoro: ricerca semantica ed effetto Big Data. Di Anna Pompilio.

Anna Pompilio
Anna Pompilio

Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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A volte sono in giro per lavoro e, specie a colazione, mi capita di provare una strana sensazione, guardandomi in giro e riflettendo. Spesso negli alberghi si tengono riunioni o convention di grandi aziende, di gloriose Big Company che hanno fatto i soldi e il successo in un mondo che non esiste più …”

Il mondo che c’è, ma non esiste.

Qualche settimana fa Rudy Bandiera ha pubblicato su Facebook lo status da cui è tratto l’inciso e leggendolo mi sono resa conto di quanto sia profondamente e semplicemente vero: c’è un mondo che non esiste più, se non per qualche nostalgico dell’edonismo reaganiano. E molti attribuiscono la responsabilità della sua scomparsa all’innovazione tecnologica, al digitale, all’intelligenza artificiale, alla scienza, ai “robot”, alla IV rivoluzione industriale, ai Big data, alle cavallette…

Sottotraccia, è chiaro, il rumor che si agita minaccioso è quello che riguarda il lavoro, o meglio, la possibilità affatto remota di perderlo e di non essere più all’altezza di tali e tanti cambiamenti. Come se le antiche profezie letterarie, più o meno fantascientifiche, si stessero per avverare, con un’Umanità destinata a soccombere sotto al peso (o alla leggerezza) della tecnologia.

Ora, con l’informatica ho a che fare ogni giorno, è il settore in cui ho investito professionalmente e costruito le mie maggiori competenze. Così, quando sento dire che i lavori più richiesti oggi non esistevano 10 anni fa e che l’universo del lavoro verso cui stiamo viaggiando è destinato a dissolversi, provo ad approfondire, consapevole del fatto che, spesso, la resistenza al cambiamento è il principale nemico di ognuno di noi.

Ma andiamo per gradi. Secondo il World Economic Forum, già nei prossimi 5 anni:

“I fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. Alcuni (come la tecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro) stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo faranno ancora di più nei prossimi 2-3 anni. L’effetto sarà la creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo – quindi – di oltre 5 milioni di posti di lavoro”.

L’analisi è basata sulle indicazioni dei Responsabili RU di più di 350 imprese in 15 tra i maggiori Paesi nel mondo:

“La maggior parte delle imprese coinvolte ritiene che la chiave per gestire con successo queste dinamiche di lungo termine del mercato del lavoro sia investire nelle competenze, più che assumere lavoratori a termine o telelavoratori“.

Oltre alla tecnologia, la seconda grande protagonista invocata quando si vuole attribuire una responsabilità in questo nuovo contesto lavorativo internazionale è la crisi. Dice Luca De Biase

“Questa crisi non è un periodo che termina con il ritorno alla crescita. Questo è un periodo di trasformazione che termina quando ci saremo adattati. Nella dinamica culturale questo adattamento parte dalla presa di coscienza dei cambiamenti strutturali che sono intervenuti. L’avvento del digitale non è il futuro ma il passato“. 

Qualcosa sembra muoversi, proprio in questi giorni alla Camera dei Deputati si è tenuto il convegno Lavoro 2025: come evolverà il lavoro nel prossimo decennio, anche se poi, da altre fonti, leggo che per risolvere la crisi servono “le startup”. Ma, anche qui, basta qualche numero per smorzare i facili entusiasmi e le ricette definitive. Citando ancora Luca De Biase:

“Le startup sono una soluzione necessaria per l’innovazione dell’ecosistema. Ma di certo non sono la soluzione sufficiente. Ci vuole finanza, ci vuole ascolto da parte della grande impresa, ci vuole educazione e ci vogliono professionalità. (…) stiamo parlando di un mondo che potrebbe valere al massimo 200mila addetti, diretti e indiretti. Non è sufficiente di per sé. E anche raddoppiando quella cifra saremmo sempre in proporzioni limitate per un paese grande come l’Italia. Significa che vogliamo che almeno una parte di quelle startup diventino grandi aziende”.

Nessuna facile soluzione all’orizzonte, dunque. Anzi, sul mercato del lavoro e sulla sua frammentazione vale la pena di spendere qualche riflessione. Come di consueto in questa rubrica, dunque, cerchiamo di farci almeno le domande giuste, in attesa che le risposte arrivino.

selezione personale
Risorse Umane o Umane Risorse?

Chiarito che il mondo del lavoro è cambiato ed è destinato a farlo sempre di più, il primo quesito è addirittura banale: se già da qualche anno si parla di Intelligenza collaborativa, di telelavoro, di smart working, di cultura convergente e partecipativa, di social organization, di mass collaboration… se da almeno un decennio si discute della necessità di un superamento dello Scientific Management a favore di un Humanistic Management basato sulla centralità del lavoratore e dell’individuo… se tutto ciò vale oggi per le grandi imprese, ma varrà nel futuro per tutte, indipendentemente dalle dimensioni, cosa mai impedisce l’applicazione dei nuovi paradigmi e il passaggio dalle risorse umane alle umane risorse, su vasta scala?

Non c’è, com’è prevedibile, una risposta univoca. Un fatto tuttavia sembrerebbe auspicabile da molti studiosi dei fenomeni fin qui accennati: non può più valere nelle circostanze attuali la “contrapposizione” tra azienda e lavoratore, ma entrambi devono trarre vantaggio da politiche di engaged o advocacy employeeAllo stesso modo non può né potrà esserci contrapposizione tra identità personale e sociale (estesa alle componenti più strettamente “social”) e non potrà esserci a maggior ragione contrapposizione tra cultura tecnologica e cultura umanistica.

La creazione di Valore si fonda già e lo farà sempre di più sulla collaborazione e l’apertura dei confini organizzativi, sulla trasparenza e la partecipazione, sulla condivisione di informazioni, opinioni ed esperienze di tutti gli attori coinvolti.

Torniamo ora alla nostra Umanità in cerca di nuove prospettive. A partire dai presupposti appena esposti sembra assai probabile che saranno soprattutto le persone in grado di destreggiarsi tra le nuove competenze richieste dal mercato ad avere maggiori chances di scivolare indenni nel nuovo millennio lavorativo.
Stiamo parlando dell’Industria 4.0 e della nuova economia social, del codice umanistico, dei big data e della linguistica computazionale, della metadisciplinarità. Ma anche qui c’è chi invece sostiene che non saranno tanto le competenze a fare la differenza, quanto le attitudini, i comportamenti, le motivazioni. In una parola sola, l’ingegno.
In entrambi i casi è fin troppo facile ipotizzare che chi ha acquisito competenze o attitudini rendendosi necessario a un’azienda in trasformazione avrà maggiori opportunità di mantenere o migliorare i propri livelli occupazionali, così come dall’altra parte saranno proprio le aziende che sapranno riconoscere e mantenere quelle stesse competenze e attitudini nel loro organico ad avere maggiori possibilità di trovare nuovi modi per connettersi e dialogare con i mercati.

Andiamo quindi avanti nel nostro discorso, e riposizioniamo la lente di ingrandimento sull’incipit del nostro vagabondare tematico, ovvero l’onda d’urto dell’innovazione che, veloce e dirompente, rischia di travolgere tutto e tutti, soprattutto in termini di occupazione.
Nell’evoluzione (non solo digitale) del lavoro, saranno le Direzioni RU, volenti o nolenti, a giocare un ruolo cruciale nel determinare gli esiti di tali scenari, con il non facile compito di attrarre le migliori risorse e soprattutto permettergli di esprimere liberamente se stessi e il proprio talento, ovvero di essere fautori della mass collaboration, incentivare le politiche di engagement ecc.

E – per fare questo – dovranno anch’esse seguire la regola prima dell’innovazione, quelle relativa alla capacità di trasformazione, dotandosi di strumenti e pratiche idonee per governare al meglio tali cambiamenti e ripensando i propri processi di azione e selezione, così da adattarsi al cambiamento in atto, in special modo per quanto riguarda la ricerca e la valutazione dei candidati.

Attenzione: non parliamo qui dell’uso più o meno spinto di Recruitment Management Software (per gli anglosassoni Applicant Tracking System), con cui si finisce spesso per controllare che, nel curricula, siano inserite parole chiave precedentemente scelte scartando magari candidati potenzialmente interessanti, quanto piuttosto di immaginare di poter innescare, nella fase di Candidate Acquisition, i dati provenienti dall’attività di social listening.

Recruiting-Software-Functionality_ Source Source: Gartner RAS Core Research, “Magic Quadrant for E-Recruitment Software”


Vediamo ora se e come è possibile, facendo una serie di esempi concreti.

L’analisi Semantica Online per la valutazione preliminare dei candidati

Gli strumenti a disposizione per questo tipo di selezione, volendo, sono già identificabili nella metodologia di analisi definita “ricerca in chiave semantica”, che si attua attraverso una serie di azioni ad oggi messe in atto per lo più dalle organizzazioni e dai brand (ma non solo, pensiamo ad esempio alle ultime vicende elettorali oltreoceano) soprattutto in ottica marketing, con il preciso intento di profilare il proprio target.

Mi spiego meglio: immaginiamo una persona che esprime un giudizio su un libro in un social post… un altro utente lo segue lascia un commento… un altro ancora decide di regalare il libro a un amico che a sua volta apprezza l’autore dell’opera, e così via… Ognuno di questi fatti altro non è che una traccia digitale, e ciascuna traccia costituisce un frammento informativo.
Ne consegue che la registrazione delle nostre impronte (digitali, sì, seppure in questo caso virtuali :-)) – e soprattutto la loro mappatura attraverso l’analisi semantica, gli algoritmi, l’ipotesi distribuzionale, la linguistica computazionale ecc. – permette ai brand sopracitati il monitoraggio (e di conseguenza l’analisi) non solo delle loro preferenze e dei loro stili di vita, ma anche della loro reputazione online e del sentiment che provano rispetto ai vari prodotti e servizi intercettati.
Le aziende, attraverso questi strumenti detti di social listening, si mettono dunque “in ascolto” al fine di intercettare tempestivamente aria di tempesta, cogliere occasioni di marketing, aggiustare il tiro della comunicazione…

glassFacciamo ora un piccolo salto in avanti, e immaginiamo di utilizzare lo stesso approccio – nonostante i limiti ancora esistenti derivanti dall’applicazione di modelli matematici e statistici al linguaggio – nella gestione delle Risorse Umane, applicando l’analisi semantica della reputazione online anche ai potenziali candidati a un ruolo aziendale… Un po’ come accade già in alcuni ambiti, vedi quello assicurativo, in cui le aziende tentano di ridurre il rischio proprio grazie all’analisi dei dati. (Non potrebbe del resto essere anche questo il caso? Ovvero la possibilità di valutare in via preliminare i candidati al fine di ridurre il rischio di assumere persone non adatte al ruolo?).

Nell’ambito della ricerca del personale, ad esempio, sarebbe possibile comprendere, analizzando le sue tracce digitali (utilizzando strumenti di analisi semantica online come accade già per un prodotto o servizio) se il candidato ideale per una posizione chiave possiede, oltre alle competenze, le famose attitudini richieste da un ambiente contraddistinto da continue trasformazioni sociali, culturali, tecnologiche e di mercato.

E non nascondiamoci dietro pretestuosi fattori di privacy, partendo dal presupposto che la raccolta dei dati deve naturalmente tenerne conto nella massima tutela delle informazioni sulla vita personale e non deve essere strumento di discriminazione… Già oggi, infatti, anche in assenza di strumenti dedicati, molti responsabili del personale fanno già da tempo verifiche sui candidati online per vedere ad esempio come sono attivi sui social ed esistono, d’altro canto, diverse piattaforme che permettono agli utenti stessi di monitorare la propria reputazione online.

Un esempio concreto…

Supponiamo di essere titolari di una grande azienda che, spontaneamente, riceve e deve processare 100 CV al giorno. E ipotizziamo che la maggior parte dei candidati, sapendo che il CV da solo non basta, abbia anche un Blog e svariati profili social. Come “sfoglio” io, responsabile delle Risorse Umane, la margherita dei profili disponibili per arrivare ad una rosa appetibile di candidati già idonei e selezionati per un eventuale colloquio?
Una volta definiti i criteri di esclusione o inclusione o i parametri che definiscono il mio candidato ideale, potrei, perché no, affidare la mia selezione iniziale a un software, in grado di seguire le tracce online dei miei candidati e di profilarli a ragion veduta anche secondo le loro attitudini e le loro preferenze, e non soltanto i loro profili curricolari.
E se ci fosse, tra i “petali” della margherita, qualche candidato particolarmente avveduto, potrebbe anche essere il caso che il mio software non faccia altro che seguire le briciole di pane che lui stesso ha appositamente seminato, così da farsi trovare per primo e trasformarsi da preda a cacciatore!

Si tratta solo di ipotesi immaginifiche?

Senz’altro no, a prescindere dall’attuale contingenza in cui i robot e l’intelligenza artificiale sono ancora ben lontani dal poter davvero sostituire gli umani nelle loro attività più complesse ed elevate. É solo che molto spesso, nella “malattia” e nelle situazioni di crisi – in questo caso i cambiamenti ipotizzati nel mercato del lavoro – sono già insiti i semi della “cura” e gli indicatori delle soluzioni possibili.

Facile o difficile a farsi?

Senza dubbio difficile. Ed è per questo che la maggior parte delle nostre risorse e del nostro “lavoro” deve andare in una sola direzione: aumentare la creatività, accrescere l’ingegno, favorire la nostra propensione al cambiamento e diminuire il più possibili le criticità del digital divide.

Perché solo chi ha capacità di cambiare, plasmarsi, adattarsi e non smette mai di imparare può cavalcare l’onda dell’innovazione e non farsi travolgere dalla stessa.

Per saperne di più

blog.debiase.com
www.economyup.it
www.educare.it
www.informazionesenzafiltro.it
guidovetere.nova100.ilsole24ore.com
storie.valigiablu.it