Disruptive Innovation nella Pubblica Amministrazione. Di Paola Chiesa.

Paola Chiesa
Paola Chiesa

Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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Cosa intendiamo esattamente, quando parliamo di innovazione? “L’atto, l’opera di innovare, cioè di introdurre nuovi sistemi, nuovi ordinamenti, nuovi metodi di produzione e sim. (…) In senso concreto, ogni novità, mutamento, trasformazione che modifichi radicalmente o provochi comunque un efficace svecchiamento in un ordinamento politico o sociale, in un metodo di produzione, in una tecnica” (Treccani)

Se l’invenzione è la creazione di qualcosa che prima non c’era, l’innovazione si sviluppa su quel terreno fertile, fondendo mirabilmente idee e tecnologie, nel momento giusto, determinando così dei cambiamenti fondamentali nella vita delle persone fisiche e giuridiche. Esemplare è il caso dello smartphone. IBM e BellSouth inventarono nel 1994 il primo smartphone, Simon, ma i tempi e le tecnologie del tempo erano prematuri per poterlo tradurre in un settore di mercato, cosa che avvenne successivamente, con il Blackberry, grazie alla diffusione significativa della tecnologia mobile.
Fu solo dopo 13 anni dall’invenzione di Simon, che Apple lanciò l’iPhone, la cui innovazione fondamentale consiste nel connettere le persone, le informazioni e le idee con modalità che hanno cambiato radicalmente il nostro stile di vita personale e lavorativo. Invenzione e innovazione hanno quindi bisogno l’una dell’altra, poiché l’intuizione geniale è utile se viene tradotta in conquiste condivise.

Questo ci conduce alla innovazione “dirompente”. Il concetto di disruptive innovation formulato da Clayton Christensen, ideatore della teoria del job to be done, focalizza l’attenzione non sul prodotto, ma sul bisogno che il prodotto è chiamato a soddisfare. Secondo questa particolare prospettiva, l’innovazione diviene allora un processo per definire un concetto di prodotto o servizio che soddisfi dei bisogni importanti e non soddisfatti. Ma per arrivare a capire quali sono questi bisogni, è indispensabile interagire sapientemente con il mercato, con le persone.
Ecco quindi che la caratteristica fondamentale della disruptive innovation è quella di non essere legata, come si potrebbe immaginare, a mutamenti tecnologici estremi o particolarmente complessi, quanto alla capacità di cogliere, secondo una metodologia quasi maieutica, quali sono i bisogni latenti nell’individuo, che per vari motivi non sono ancora emersi.

Possiamo declinare il concetto di disruptive innovation anche nella Pubblica Amministrazione? Certo, ma crearne le condizioni richiede che gli amministratori guardino al governo della cosa pubblica con occhi diversi, per disegnare nuovi modi, meno costosi e più efficaci, quindi anche misurabili, per erogare i servizi pubblici.
L’innovazione nella Pubblica Amministrazione la riscontriamo ad esempio ogni volta che essa porta avanti politiche di apertura dei dati, consentendo alle imprese di sviluppare app che in tempo reale informano i cittadini su trasporti, scuole, ambiente, lavoro, turismo. Oppure quando consente al cittadino o all’azienda di esercitare agevolmente il proprio diritto di accesso ad atti e documenti amministrativi. O ancora ogni volta che utilizza i social media per intercettare i bisogni dei cittadini e per sviluppare la creazione di intelligenze collettive a vantaggio della comunità territoriale.

Quello di cui abbiamo bisogno è a ben vedere una strategia a lungo temine che traini le attività quotidiane. Non qualcosa di straordinario, fuori dall’ambito delle cose trattate quotidianamente, con lunghi tempi di gestazione e che magari faccia capo a poche persone dedicate. La crescita avviene nelle aziende e negli enti nei quali le persone sono pronte ad innovare se stesse continuamente, insieme a tutto ciò che le circonda, identificando lo sviluppo come il frutto di una mentalità diffusa e non come il colpo di genio di una o poche persone.

Puntare sull’innovazione delle persone significa in particolare:

creare le condizioni sociali ed organizzative che favoriscano l’identificazione e l’adozione delle innovazioni di prodotto e di processo;

stimolare la leadership e l’evoluzione culturale delle singole persone tali da favorire l’accettazione di nuove sfide;

orientare lo sviluppo delle competenze alla creazione di valore in tutti i processi aziendali.

Per una PA, domandarsi incessantemente non solo quale sia il valore che il cittadino si aspetta dai servizi, ma anche come possa continuamente aumentarlo, riducendo al tempo stesso le attività che al contrario non aggiungono valore, significa in fondo applicare la tecnica del “lean thinking” giapponese, il pensiero snello alla base dei modelli aziendali di sviluppo delle case automobilistiche giapponesi, prima fra tutte Toyota, specialista nell’integrare persone, processi e tecnologie con progetti di sviluppo dei prodotti altamente specializzati, a supporto di piani strategici a lungo termine. Privato e pubblico non sono allora poi così distanti.

Il rapporto tra uomo e macchina

 

Per connotare ulteriormente l’innovazione, è interessante osservare l’evoluzione della relazione tra uomo e macchina nel tempo, in quanto tale relazione ha caratterizzato l’evoluzione umana, la velocità e la forma della crescita economica. Il processo evolutivo, dai tempi in cui l’uomo ha introdotto strumenti che lo aiutassero nel lavoro nei campi, alla rivoluzione industriale con i relativi processi di automazione che hanno portato alla crescita economica, oltre che al miglioramento dello stile di vita, ha raggiunto l’attuale fase. In questa nostra epoca della digitalizzazione dell’economia e della conoscenza, stiamo istruendo la macchina affinché ci sia di supporto nelle attività intellettuali, non più per affrancarci dai lavori faticosi, pesanti o alienanti. Big data, sensoristica e intelligenza artificiale, potenzialmente favoriscono un’economia più produttiva ed efficiente, grazie a software che ci possono aiutare a prevedere e comunque gestire i vari scenari.

Ma se stiamo demandando alla macchina attività intellettuali, intelligenti, dobbiamo preoccuparci perché la macchina sta sottraendo lavoro all’uomo? Non proprio, perché in fondo gli permette di dedicare più tempo al pensiero critico, alla creatività, alla capacità di ragionare fuori dagli schemi per risolvere problemi complessi, alla comunicazione, all’empatia. Insomma, non allarmiamoci più di tanto per il robot giornalista che scrive articoli, come riportato dal Sole24 Ore
E soprattutto, non dimentichiamoci che un aspetto peculiare nell’attuale rapporto tra uomo e macchina, è quello di mettere in relazione le persone, contribuendo ad alimentare spirito critico, feedback, confronto tra esperienze diverse.
“Se avessi chiesto ai clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto un cavallo più veloce” (Henry Ford).

E’ proprio anche grazie al confronto che si può affinare la capacità visionaria. Se l’innovazione è un’opportunità di guardare a vecchi problemi in modi nuovi, definendo il problema e ponendo le giuste domande, si può ad esempio scoprire che le grandi città di Paesi diversi hanno molto più in comune tra loro che con il resto del proprio Paese, come riportato dalla BBC.
Quando si parla di Stati, tipicamente ci si focalizza su ciò che li separa, a partire dalla lingua e dalla cultura.
Ma quando si parla di città, le problematiche da affrontare sono più simili. Educazione, trasporti, sanità, lavoro, sicurezza, migrazione. In questi settori, nell’era della globalizzazione, le città possono imparare l’una dall’altra, in un processo utile anche per valutare l’efficacia dell’innovazione stessa. Sempre in quest’ottica, è lodevole il rapporto di ricerca “Le buone pratiche dei Comuni” di Anci Umbria, importante strumento di divulgazione e condivisione dei frutti dell’impegno, ricerca e ingegno delle amministrazioni comunali.

Far convivere l’aspetto teorico e tecnologico dell’innovazione, con quello pratico della sua effettiva applicazione nel tessuto sociale ed economico, e delle relative implicazioni, anche in termini di valore pubblico, significa avere un approccio dirompente.
Il soggetto maggiormente coinvolto in questa sfida, e titolato per mettere in relazione e coinvolgere attivamente tutti i soggetti del territorio, è la Pubblica Amministrazione. A vantaggio di tutti: cittadini, imprese, associazioni, scuola, centri di ricerca.
Perché l’innovazione non è una questione di scelta, ma una necessità.
Rapporto Uomo Macchina