Big Data Vision: Ultra, Extra, Large, Medium, Small… Invisible!

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Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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Accade spesso che la parola “visione” sia utilizzata in una declinazione che – attribuendo al termine stesso un’aura toti-potente, rimanda a scenari ultra-naturali, capaci di produrre effetti dirompenti. Una delle sue definizioni etimologiche, d’altra parte, cita: “Vista, spettacolo che colpisce in modo particolare, sia positivamente sia negativamente”.

Questa parola multi-forma, dalle tante varianti, può anche lambire le aree semantiche dell’utopia o addirittura del delirio, anche nella sua accezione subdolamente dispregiativa: “Fantasticheria priva di reale fondamento, utopia, progetto irrealizzabile”.

Eppure, almeno altrettante volte, lo stesso termine, nella sua variante inglese vision, richiama ambiti più prosaici, come accade nel marketing aziendale, dove al termine corrisponde addirittura uno dei due pilastri tradizionali dell’identità d’azienda (l’altro è quello pertinente all’inflazionatissima mission): “Modo di vedere, concetto o idea personale che si ha in merito a qualcosa”. Il tutto, non dimentichiamolo, finalizzato al business, concetto più che mai concreto.

A quale pro dunque l’esistenza di una parola che abbraccia orizzonti semantici capaci di passare dalla magia alle strategie di marketing – sempre che nel marketing non vi sia davvero qualcosa di, come dire… fuffologico 😉 ? Ma soprattutto: cosa c’entra tutto ciò con l’innovazione, il futuro e i Big Data?

Ancora un po’ di pazienza. Risaliamo insieme la radice della parola sino al suo sememe originario, la cui etimologia deriva dal latino visio-onis, derivazione di videre «vedere», e il cui participio passivo è visus, che attinge fin dal suo esordio a un’azione nitida e ben definita, quella relativa alla capacità di sguardo che, per sua natura, “vede”. Ovvero registra, osserva, raccoglie, trattiene, conserva, in un “processo di percezione degli stimoli luminosi, la cui funzione è la capacità di vedere.”

Questa parola-azione configura quindi, e innanzitutto, la capacità-possibilità di accogliere in sé qualcosa che non ha (ancora) una rappresentazione né codificata e tanto meno condivisa, ma che, in una serie di attività cognitive capaci di riveberi passivi e istanze transitive, si dispiega in un vero e proprio “processo di azione (…) capace di (…) vedere una cosa per esaminarla, trarne notizie utili”.

Tale ricchezza di varianti, dunque, implicita nella definizione di visione, mette a fuoco una serie di azioni che sono tra loro non tanto complementari, quanto sequenziali: per poter vedere qualcosa occorre innanzitutto distinguerla dall’orizzonte sterminato delle altre possibilità di significato e, nello stesso tempo, occorre reimmergerla in un contesto, attribuendovi un giusto contorno semantico. Per poter vedere qualcosa, insomma, non basta percepirne l’esistenza, ma occorre saperla circoscrivere, descrivere, o meglio, connotare.

È in questa capacità all’apparenza contraddittoria e quindi strabiliante – squisitamente umana – che ciascuna visione prende la forma innanzitutto di colui che guarda, ancor prima che di ciò che è visto.

Non a caso, visionari, sono stati descritti sì poeti e pittori, ma anche architetti e scienziati, politici e imprenditori, e certamente esploratori, filosofi, inventori… tutti coloro, cioè, che – procedendo probabilmente per balzi, anziché seguire percorsi lineari – non solo hanno guardato, e visto, quel che avevano innanzi, ma anche quello che c’era (o poteva esserci) intorno e oltre, molto più avanti, o magari indietro.

E qui ci ricongiungiamo finalmente al topic della nostra visionaria – psichedelica, psicolabile? – divagazione: se sino a pochi decenni fa quello che era visibile era circoscritto da confini percettivi (non necessariamente sensoriali, ma comunque fisico-chimici o al limite astratto-matematici) oggi le attuali capacità di analisi, elaborazione e calcolo – se agite e “lette” insieme – rendono questa capacità di visione estendibile all’ennesima potenza, grazie a una mole di informazioni mai rese disponibili prima e a una possibilità di elaborazione mai sperimentata. Del tutto astratta, all’apparenza, eppure più che mai reale e concreta, e infine predittiva.

Cosa manca ancora a tutto ciò per poter risplendere nel proprio corollario di luce? Manca come al solito – come sempre – la capacità di una visione preliminare. Quella cioè che permette di immaginare gli eventi prima che questi si mostrino nella forma che prenderanno, quella che consente di fantasticare su tutto ciò che, seppure di là ancora da essere veduto, ha solide fondamenta di probabilità, capaci di sostenere non più utopie, ma ipotesi concrete e realizzabili di progresso.

Non a caso, allora, l’attenzione di chi tenta di esplorare e governare questi potenziali orizzonti di conoscenza – come bene illustra questo articolo – si sposta verso la Data Visualization, una pratica che insegue la forma e il contenuto dei Dati prima che i loro significati si concretizzino, al fine di darne una rappresentazione in grado di “guidare” ogni inferenza e azione di immaginazione, ancora prima che di strategia e messa in opera.

Scopriremo quindi insieme come, nel prossimo articolo, i dati possono essere disegnati ancor prima di essere visti… Sempre che nel frattempo non siamo stati, noi stessi, preda di strane visioni!