Abbiamo concluso l’anno alle nostre spalle con un excursus sui 6 memes che – dalla nascita del nostro blog ad oggi – ci hanno accompagnato nell’annotare, marcare e comprendere le etichette di significato che Italo Calvino ci ha lasciato in eredità con la sua opera Lezioni americane: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Coerenza.
Iniziamo l’anno nuovo con un contributo che, attraverso il tema della Leggerezza, propone un filo conduttore tra la materia più classica del pensiero, espressa attraverso la poesia, e la materia più recente dell’innovazione, rappresentata da big data e algoritmi.
Il tutto passando attraverso un continuum espressivo, quello della comunicazione intesa come ponte levatoio che può unire, ma anche dividere ulteriormente, versanti diversi e a volte culturalmente opposti della conoscenza dell’uomo.
Buona lettura.
Il canto del senso che si dispiega
“Non si può comprendere la bellezza del canto di un uccello sezionandone l’organo vocale”. Così scrive Iosif Brodskij ne Il Canto del Pendolo, riferendosi con tutta evidenza ai tentativi di decifrare la voce di un poeta segmentandone l’opera in maniera analitica per tradurla in chiave prosaica.
Tratta di grandi voci, nel libro, di canti e poeti eccelsi – tra cui Pasternak, Marina Cvetaeva, Kafka, Montale, Kavafis, Leopardi, solo per citarne alcuni – che hanno raggiunto vette liriche e poetiche inarrivabili, dense di significato eppure di una leggerezza senza pari, capaci di trattare temi di eccezionale “gravità” in stringenti quanto evanescenti suoni.
Brodskij, con poche ben mirate frasi, dà così voce al disagio di chi assiste a un vasto numero di specialisti del lingaggio che – a vario titolo e ciascuno a suo modo – tentano di sezionare tali canti sminuzzandoli parola per parola, col risultato, a volte, non solo di sottrarre senso a quegli stessi canti, ma addirittura di aggiungervi peso e cripticità, anziché aumentarne la comprensibilità e dunque il potere comunicativo.
Si tratta di un approccio ingenuo, quello di Brodskij? In parte forse sì. Ma è anche una visione che tradisce l’aspettativa pienamente umana che il senso più profondo delle cose si possa trasmettere quasi da solo, se pronunciato (e udito) libero, lieve e puro nella sua estensione, come una freccia che – una volta scoccata – raggiunge leggera e inarrestabile l’obiettivo.
Sempre di volo si tratta, del resto…
È più importante il canto o il cantore?
Dal punto di vista personale – lo confesso – sottoscrivo almeno in parte le basi ideologiche ed etiche di tale punto di vista, convinta come sono che una poesia, nel suo grado di sintesi, nella forza della sua ispirazione, nella densità di senso che avvolge (e da cui è avvolta), sia un unicum, un’alchimia, una formula della materia del significato i cui atomi e le cui unità di misura non si possono più di tanto sezionare, slegare, scomporre…
Ma esiste un modo per analizzare – o meglio, vivere – ogni complessità in maniera non solo più semplice, ma alla fine anche efficace. Ed è qui che torna in campo il genio di Calvino e le sue lezioni, in particolare quella dedicata alla leggerezza. Essa infatti, ben lontano dal proporsi come metodo di analisi superficiale o semplificato, si pone al contrario di approdare a un livello più complesso di percezione, e dunque di comprensione.
Il tutto attraverso uno sguardo che non sia non solo analitico, ma anche istintivo, capace di elevare il senso di un linguaggio complesso (come è quello di ogni poesia) a una dimensione naturale, intrinseca e capace di auto-generarsi.
Non si tratta nemmeno qui di un caso: a Calvino appartiene – oltre a quello di studioso – anche lo status di Poeta. E dunque più di altri letterati è stato in grado di tradurre davvero, senza tradirlo, il canto di quei poeti. Anzi: era in grado non solo di comunicarlo, ma di ampliarne l’eco e di diffonderlo senza snaturarlo né appesantirlo.
Perché in fondo non c’è reale possibilità di scambio e condivisione di conoscenza se non attraverso forme di comunicazione che siano capaci di costruire ponti e itinerari di mediazione tra mondi differenti, così da veicolarne e tradurne il significato oltrepassando le barriere esistenti, culturali, logiche, razionali, affettive o valoriali che siano.
Forme di comunicazione, cioè, che dispieghino la conoscenza, anziché spiegarla. E, per fare questo, occorrono appunto dei mediatori, dei traduttori, più che delle enciclopedie viventi che salgono su un qualche pulpito. E che non necessariamente debbono avere la passione per la dissezione delle altrui corde vocali.
Cip cip, anzi tweet tweet
Abbiamo iniziato parlando di poeti e volatili. Parlando ora di comunicazione non possiamo rinunciare a un’ovvietà: i media con cui comunichiamo oggi non hanno più, se non con rare eccezioni, alcuna figura di intermediazione al loro interno. Con una leggerezza inaudita – perfino sospetta – fanno tutto da sé, almeno all’apparenza. Mai come in questi ultimi tempi, infatti, la comunicazione umana si è fatta densa, quasi convulsa, spesso tanto scoordinata quanto massiccia da assomigliare sempre più a veri e propri “versi”, e non certo quelli poetici.
In una sorta di anarchia e autoregolamentazione (più o meno efficace) – e senza tanti letterati né professori di mezzo – le informazioni vanno e vengono. Ma non passano.
Il risultato di tanto chiacchiericcio è una tipologia di informazione trasmessa che, al pari di un rumoroso gracchiare, spesso comunica poco che sia davvero informativo, anche se è divulgato in maniera così massiva da raggiungere più o meno tutti, tra tweet, like, reshare e via così…
Si tratta più che altro di connessioni, e non di vere e proprie comunicazioni, come esemplarmente dice Pietro Dominici ne La comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza per governare il mutamento.
Perfino le poesie vengono snocciolate, impaginate, condivise e fatte svolazzare di qua e di là. Tanto da far venire nostalgia dei tempi in cui, almeno, a tagliuzzarne i versi erano mani in qualche modo, come dire? Consapevoli, competenti.
Si tratta di un punto di vista snob? Apocalittico? Conservatore? Niente affatto.
È la consapevolezza dolente di chi osserva come in questa nuova situazione ossimorica di una leggerezza-pesantezza, rumorosa e tuttavia autistica nella sua incapacità di comunicare davvero, a farne le spese sia ancora una volta il significato più vero e profondo di ciò che si vuole comunicare e dunque condividere.
Si rende nuovamente ermetico ciò che è potenzialmente semplice, ma questa volta per eccedenza, anziché per assenza, in un trend progressivo che sembra inarrestabile.
Una breve parentesi: indietro non si torna, è chiaro, e nemmeno sarebbe il caso. Ma va detto con una certa determinazione che la diffusione dei media digitali, in primo luogo i social, così come si sta configurando, sta mietendo una vittima di tutto rispetto: il “senso” del nostro conversare, sia nella qualità del troppo detto che nel fascino perduto dell’omesso, in nome di una quantità ben poco attraente.
Ma anche se il potere di aggregazione di questa nuova leggerezza-gravità dettata dalle innovazioni mass-mediali è così forte, abbiamo come sempre un’arma a disposizione: analizzare con attenzione la nostra e l’altrui voce – ebbene sì, torno in parte sui miei passi – e soprattutto allenare e approfondire la nostra capacità di ascolto.
Seguendo, tuttavia, un diverso modus operandi, in una sorta di terza via: quella dell’integrazione anziché della parcellizzazione, dell’interazione e dell’empatia anziché del distacco e dell’enunciazione oggettiva.
E, per farlo, è indispensabile dotarsi degli stessi potenti mezzi di cui dispongono i nostri interlocutori, che spesso sono (all’apparenza) inanimati: i media digitali e le loro piattaforme algoritmiche. Come dire: si deve passare – piaccia o meno – dal canto al conto :-).
All’ombra degli algoritmi, ai piedi della poesia
Proseguendo con i nostri tempi, esistono altre forme di testo che sono ormai di uso quotidiano, anche se ben nascoste sotto a montagne di dati. Si tratta anche qui di formule, all’apparenza per niente poetiche, ma senza dubbio capaci di raggiungere anch’esse vette inarrivabili e di comporre altrettanto grandi opere: gli algoritmi.
Questi strani esseri in forma di funzione – la cui definizione più generalista riporta a “qualsiasi schema o procedimento sistematico di calcolo” e che, in ambito informatico, riguarda ogni “procedimento di calcolo definibile in un numero finito di regole e di operazioni” – posseggono (al pari delle poesie) uno sterminato potenziale di generazione di senso, produzione di informazioni di valore, diffusione della conoscenza. Potenziale che merita, di conseguenza, non solo di essere riconosciuto, applicato e governato, ma anche comunicato e soprattutto condiviso.
Nonostante l’apparente antitesi tra i due mondi – quello della poesia e quello dei numeri – il parallelo non dovrebbe stupire più di tanto.
Proprio come avviene nella poesia, infatti, si tratta di forme di linguaggio che seguono regole all’apparenza invisibili e che invece non perdono un colpo, anzi arrivano precise e puntuali al bersaglio, attraverso un percorso di bivi e connessioni espressi in forma di if, and e or.
Forme e formule di linguaggio che, a modo loro, comunicano. Eccome se lo fanno: a una velocità inimmaginabile, attraverso gli strumenti che usiamo tutti i giorni e che trascinano in tale vortice il flusso delle nostre informazioni e delle nostre comunicazioni, e dunque il patrimonio stesso della nostra conoscenza.
E tutto proprio sotto al nostro naso, mentre noi, magari, puntiamo lo sguardo ignari al cielo, seguendo il tweet del giorno che svolazza in forma di hastag.
Cambio di passo, cambio di sguardo: dal volo al suolo?
Come per tutti i cambi di passo o di livello di una rivoluzione culturale – chiamiamoli soglie, o limina, o clinamen – all’inizio non c’è maniera di avanzare se non, parzialmente, alla cieca.
Sospinti magari in parte dalla velocità di propulsione che ci ha accompagnato sino a quel punto e che poi, in una sorta di inerzia, ci ha dato quell’ultimo colpetto che ci ha fatto scollinare, girare l’angolo, cambiare strada.
La spinta di ogni cambiamento appare così molto spesso leggera, all’inizio, quasi leggiadra – perché invisibile – sino a che non si dispiega nelle sue conseguenze, ed è allora che se ne avverte il peso, o meglio, la gravità. Ma si trova in quel preciso momento, quello in cui la svolta è stata appena compiuta, il tesoro più prezioso di cui disporre in termini di conoscenza.
Lì si trova la nostra possibile bussola, quella capace di mettere insieme il Nord e il Sud della conoscenza umana e farne un percorso possibile di senso condiviso. Una strada da percorrere insieme. Oggi, io credo, siamo esattamente in quel punto, in quel momento. Forse un po’ in ritardo, ma ci siamo.
Una premessa va a questo punto fatta, o meglio, ricordata: ogni forma di comunicazione è in sé una tecnologia.
La contingenza che ci sembri un fatto naturale è dovuto alla capacità mimetica che, da sempre, connota ogni tecnologia comunicativa, dall’oralità in poi. Lo stesso costrutto di una poesia, fin dalle origini, era infatti orientato a più funzioni, fin dai primi poemi: condensare informazioni e percorsi di senso in poche parole, capaci – nel loro dispiegarsi – di costruire da un lato scorciatoie di pensiero e dall’altro di essere ricordate con facilità.
Cosa che, in fondo, si può attribuire anche alle piattaforme semantiche e social, che operano in maniera sotterranea profilando e filtrando prima le nostre comunicazioni (magari in forma di ricerca su internet piuttosto che di post o like) e rimodellandole e diffondendole poi, attraverso la selezione di contenuti che ci viene quotidianamente offerta.
Il tutto attraverso una velocità di raccolta, analisi, produzione e diffusione che è impossibile da percepire se non in maniera astratta e razionale, e la cui influenza, dunque, si mimetizza in maniera quasi assoluta pur nel suo avanzare esponenziale.
Cosa serve dunque per trasformare questo potenziale di evoluzione non in una bolgia di connessioni massive e insignificanti, ovvero leggere nel senso negativo del termine, ma piuttosto in un terreno fertile in cui diffondere i versi e i canti di quello che le nuove tecnologie hanno in grembo?
Ornitologi, divulgatori o Data Scientist che siano :-), servono uomini e donne con lo sguardo ben concentrato in avanti, alla ricerca di percorsi di senso leggeri, capaci di scavalcare i confini delle attuali conoscenze.
Ma occorrono anche donne e uomini con i piedi posati a terra capaci di portare con sé quel patrimonio di Humanitas che le scienze umane hanno coltivato e disseminato negli anni, scavalcando una volta per tutte le due opposte sponde del sapere: quello umanistico e quello tecnologico. Portando profondità e spessore con sé.
Perché nel centro, nel mezzo, ci siamo noi: uomini e donne che hanno la necessità di capire, comprendere e comunicare, per fare le scelte migliori non solo per l’umanità in genere, ma anche per noi stessi.