Di transizione in transizione: sapremo migrare a una versione di umanità 5.0 più SENSIBILE oltre che performata?

Natalia Robusti

Natalia Robusti

Imaginative Communication Strategist ● Artist ● Co-Founder di Spazio Lookness

Otto anni fa iniziava l’avventura del blog #6MEMES, un luogo di conversazione tra tematiche tecnico-scientifiche e temi considerati di tipo umanistico, ispirato alle Lezioni Americane di Calvino.

In questi otto anni molto è cambiato e in maniera sostanziale: la cultura dei dati e del digitale è ormai dominante e i relativi settori di riferimento – comprese le contaminazioni culturali che li riguardano – sono diventati di dominio comune.

Per questo, nel 2022, il progetto #6MEMES ha raggiunto il suo traguardo e salutato i lettori.

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Knowledge and control: dalla complessità dei dati all’informazione

Non esisteva né un prima né un dopo né un altrove da cui immigrare.”

Italo Calvino

 

LEGGEREZZA VERSUS SENSIBILITÀ. METTERSI IN VIAGGIO. MA VERSO DOVE. E SOPRATTUTTO, COME?

Abbiamo visto nel post precedente le difficoltà incontrate ad oggi e a più livelli nell’intraprendere le transizioni che ci aspettano e che, per molti versi, si configurano come una sorta di migrazione non solo tecnica, ma anche culturale in cui, a muoversi, non saranno solo le persone, le merci e servizi, ma interi stili di vita, sistemi di credenze, set di aspettative.

E nonostante le pause e le deviazioni che – sicuramente e purtroppo – dovremo affrontare visto il clima di guerra in cui siamo immersi (e che si prospetta non aggirabile in tempi brevi) è chiaro che tali progetti e propositi di transizione (energetica, digitale e infrastrutturale) non dovranno perdere di vista il tema della sostenibilità, da raggiungersi in ogni modo anche se a più lungo termine.

[bctt tweet=”Progetti di transizione energetica, digitale e infrastrutturale non dovranno perdere di vista il tema della sostenibilità da raggiungersi in ogni modo.” username=”MapsGroup”]

Inutile nasconderselo: gestire tali flussi trasformativi, che si produrranno in pressoché ogni ambito delle nostre società, e che dunque assomigliano per molti versi a un vero e proprio esodo culturale, sarà un’impresa ardua che potrà funzionare, io credo, solo a tre condizioni almeno.

Le prime due – come accade per ogni evento trasformativo – sono dipendenti dal punto di partenza e da quello di arrivo.

E su questo, a grandi linee, direi che l’opinione pubblica e istituzionale è stata, almeno fin qui, convergente, salvo appunto le deviazioni che questa nuova contingenza ci prospetterà di mano in mano.

Dati questi due fattori come necessari, ma non sufficienti, il terzo è senz’altro il KIT di dotazione culturale (sia un senso concreto che virtuale) con cui si deciderà di procedere, ovvero le risorse che si deciderà di portare con sé per affrontare il viaggio.

L’unica cautela efficace per ogni impresa di cui non si conoscono in anticipo gli ostacoli che si incontreranno lungo il cammino, è infatti quella di dotarsi non solo degli strumenti esistenti, ma anche dei componenti necessari a crearne, all’occorrenza, di nuovi, così da attrezzarsi per ogni evenienza.

E già qui incontriamo un primo ostacolo sia culturale che di visione: ogni convinzione pregressa dei componenti della “carovana” – sia dal punto di vista professionale che personale – può individuare come preminenti e indispensabili risorse e strumenti che per gli altri sono del tutto rinunciabili.

Anche in vista di queste decisioni quindi, che – restando nella metafora dell’esodo – si illumineranno di verità alla luce delle varie tappe oltrepassate, servirà non solo portare con sé strumenti materiali di qualità, ma anche valori immateriali ben saldi, radicati e soprattutto CONDIVISI, su cui far leva al bisogno.

Il tutto, in previsione di utilizzare – in quanto squadra piuttosto che come insieme di individui singoli – quel carburante “grezzo” incontrato lungo il cammino che saranno le INFORMAZIONI e i DATI raccolti in itinere. 

 

A SPASSO TRA NUOVO, NOVITÀ E INNOVAZIONE

Dicevamo della opportunità di migliorare i nostri obiettivi imparando mano a mano dai nostri stessi passi ed errori.

In sintesi, in relazione ai Big Data – e ormai non solo – questo approccio è detto data driven, e spesso è gestito con il supporto degli strumenti di Deep learning e Intelligenza Artificiale che abbiamo a disposizione.

In questo senso la transizione digitale promette di aiutarci in questa sorta di migrazione. E trovo interessante, a tal proposito, che il termine stesso di migrazione sia anche quello più prettamente tecnico in ambito informatico che indica il passaggio da una versione di programma obsoleto a una più recente e aggiornata.

Ma anche in questa ipotesi facilitante, la più auspicabile, resta aperto il problema della pietra di paragone che sta in fondo all’animo di ogni “viaggiatore” alle soglie della partenza: cosa o chi incontreremo, durante e alla fine del tragitto, a fronte di ciò che lasciamo di certo e conosciuto? E varrà davvero la pena di intraprendere questo viaggio?

Non è detto, infatti (lo abbiamo sperimentato sia con le polemiche sulle campagne vaccinali che con le attuali campagne di disinformazione rispetto al conflitto che viviamo) che i dati e le informazioni, anche se corretti, siano poi accettati e utilizzati dagli aspiranti viaggiatori…

Non basta dunque il concetto di “nuovo” per dare corpo a una speranza che si concretizzi in azione, ma occorre ben di più. Soprattutto nel momento della partenza verso lidi ignoti.

Il problema – che di certo riguarda in questi stessi giorni molti manager e responsabili vari di organizzazioni che devono decidere come intraprendere la strada verso il rinnovamento di loro stessi e delle loro attività – se lo pongono anche i massimi sistemi economici, come illustra ad esempio questo articolo del Sole 24 Ore che si occupa dell’evoluzione in corso di Facebook dal titolo Chi ha un’idea non fa innovazione: la lezione dell’OCSE.

L’articolo parte con una stringa di testo emblematica: DISTRUZIONE CREATIVA 🙂 Leggiamo insieme le prime righe:

 

L’innovazione coincide con l’ideazione? Sì o no? Qualche giorno fa l’annuncio da parte di Facebook di Metaverse, la piattaforma per la realtà virtuale che ci permetterà – ha spiegato il CEO Mark Zuckerberg – di «teletrasportarci al lavoro, a un concerto o a una riunione di famiglia in forma di ologramma», facendoci risparmiare tempo e preservando l’ambiente per mancati spostamenti. A seguire, poche ore dopo, Microsoft ha annunciato che renderà disponibili agli utenti spazi personalizzati e immersivi per incontrarsi durante lo svolgimento del lavoro.”

 

E seppure questa sia “una corsa (sacrosanta) all’innovazione (e a chi la finanzia) che, da sempre, caratterizza il business”, la novità lascia, per ora, perplessi: mentre è ben chiaro a tutti cosa sia OGGI Facebook, non è ben chiaro quel che diventerà DOMANI.

[bctt tweet=”Non basta il fattore novità ma occorre piuttosto la fiducia nel fatto di muoversi verso la creazione di nuove opportunità e nuovi valori, possibilmente con orizzonti di senso che si aprano sempre più nel tempo.” username=”MapsGroup”]

La domanda in sintesi è questa: Metaverse aggiungerà davvero un nuovo senso sociale e condiviso ai nostri bisogni (anche di business) e al nostro immaginario o piuttosto cercherà solo di speculare sugli stessi?

La differenza tra nuovo e innovativo è posto in primo piano anche dall’OECD (Organizzazione Internazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, chiamata OCSE in italiano):

 

l’innovazione è la realizzazione di nuovi (o significativamente migliorati) prodotti (siano essi beni o servizi), processi, metodi di marketing o metodi organizzativi nelle pratiche di business, nell’organizzazione del lavoro e nelle relazioni con gli attori esterni”.

 

Non tutto ciò che è nuovo, insomma, luccica.

Non basta il fattore novità a muovere i singoli e le organizzazioni, ma occorre piuttosto la fiducia nel fatto di muoversi verso la creazione di nuove opportunità e nuovi valori, possibilmente con orizzonti di senso (e anche consumo) che si aprano sempre più nel tempo, in un tragitto generativo.

E se parliamo di innovazione riferendoci ai “bisogni” dell’uomo, in un’ottica appunto di evoluzione verso un’idea di umanità 5.0, il discorso si fa ancora più complesso e sottile e va affrontato usando uno dei nostri valori più nobili e potenzialmente innati nella nostra specie, quello della sensibilità.

 

SENTO, E DUNQUE EVOLVO…

Mi chiarisco subito: non è, la mia, una proposta di visione romantica del mondo (almeno non solo :-), soprattutto visto il bagno di realtà che ciascuno ha fatto e sta facendo in queste settimane.

Si tratta piuttosto di fare i conti con una realtà ben precisa: il processo di transizione avviato modificherà in maniera sostanziale gli attuali assetti economici, sociali e regolamenterà perfino in modo diverso l’accesso alle risorse disponibili per la nostra stessa sopravvivenza.

Un approccio sensibile al problema è dunque obbligatorio, se vogliamo che i nostri traguardi siano realmente sostenibili, e non solo dal punto di vista economico.

È del resto la Commissione Europea a sottolineare che l’industria 5.0 deve “promuovere uno scenario produttivo umano-centrico e sostenibile”, e lo sostiene in un “policy brief” del gennaio 2021 in merito all’Industria 5.0.

Innanzitutto indica sei tecnologie abilitanti per l’Industria 5.0:

  • Interazione uomo-macchina personalizzata.
  • Tecnologie ispirate alla natura e materiali intelligenti.
  • Gemelli digitali e simulazione.
  • Tecnologie per la trasmissione, l’immagazzinamento e l’analisi dei dati
  • Intelligenza artificiale.
  • Tecnologie per l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, lo stoccaggio dell’energia e l’autonomia. 

 

E in seguito pone l’attenzione al fatto che

 

Industria 5.0 non dovrebbe essere intesa come una continuazione cronologica o un’alternativa al paradigma esistente di Industria 4.0.

È il risultato di un esercizio lungimirante, un modo di inquadrare come l’industria europea e le tendenze e i bisogni emergenti della società coesisteranno. Come tale, Industria 5.0 integra ed estende le caratteristiche distintive di Industria 4.0. (…)

Questi fattori non sono solo di natura economica o tecnologica, ma hanno anche importanti dimensioni ambientali e sociali.”

 

Infine, sottolinea come

 

piuttosto che prendere la tecnologia emergente come punto di partenza ed esaminare il suo potenziale per aumentare l’efficienza, un approccio umano-centrico nell’industria mette i bisogni e gli interessi umani fondamentali al centro del processo di produzione”.

 

Ci troviamo così oggi, nel pieno di una nuova, straordinaria opportunità di rivoluzione industriale e tecnologia, a dover in parte ripensare noi stessi e tornare sui nostri passi per rimettere al centro quell’idea dell’uomo capace di sì di innovazione, ma anche di accudimento, che tanto abbiamo inseguito senza (finora) trovarlo.

 

EVOLVO, DUNQUE COR-RISPONDO

Per avere un’attitudine di “cura sensibile”, prima di tutto, bisogna aver chiaro quali sono i bisogni e  le necessità di chi (e cosa) è diverso da noi. Il che non è per niente facile in un momento di cambiamento come questo.

Si tratta non solo di mettersi in ascolto, ma anche e soprattutto di corrispondere alle istanze raccolte.

Per capirci meglio, entriamo nel cuore stesso del concetto di sensibilità.  Derivante dal participio passato latino di sentire, il termine indica la proprietà di essere oggetto di un’azione percepita, e ha, non a caso, non soltanto diverse declinazioni rivolte all’animo umano, ma si relaziona anche agli artefatti capaci di “rispondere” in maniera sofisticata alle azioni e agli stimoli.

[bctt tweet=”Solo una vigile e sensibile attenzione al benessere di tutti i partecipanti al processo di transizione consentirà a ciascuno di trovare il suo spazio, ognuno con i suoi specifici bisogni.” username=”MapsGroup”]

Risposta alle sollecitazione, gentilezza responsività, delicatezza: ogni sinonimo di sensibilità indica un’azione di ascolto percettivo e un qualcosa in più, una eccezionalità attentiva che si dovrebbe sempre riverberare in ogni azione dell’uomo nonché nell’uso dei suoi strumenti.

Qui sta la differenza più profonda tra novità e innovazione, e l’equipaggiamento da predisporre per questo lungo itinerario ne dovrà tenere conto, pena il fallimento della nostra stessa missione.

A tal proposito, e in ottica di fornire un esempio che vada in questa direzione, mi sento di condividere il progetto di remote working che Maps S.P.A. ha dato alla luce durante il periodo pandemico per farne, tuttavia, un sistema vero e proprio di organizzazione del lavoro innovativo e soprattutto sensibile alle necessità delle persone che fanno parte del gruppo, sia come dipendenti che come manager.

Il nome stesso del progetto, Maps Habitat, rappresenta il concetto che ne è alla base, ovvero quello di creare un ambiente di lavoro capace di connettersi con la vita di ciascun membro del gruppo

Tra le tante intuizioni e innovazioni contenute nel progetto infatti, la più attinente al discorso che stiamo facendo è il fatto che esistano

ben sette Habitat (o piani di lavoro settimanali) in base a differenti configurazioni orarie che creano un diverso rapporto tra spazi aziendali e spazi “personali”. 

Le persone, infatti,  possono scegliere, in maniera flessibile, uno di questi Habitat, che permetteranno loro di lavorare in ufficio 1, 2 o 4 giorni alla settimana, a seconda delle proprie esigenze e preferenze personali.

Ad esempio, uno dei programmi offre la possibilità di cominciare il lavoro di prima mattina, per avere maggior tempo libero nel pomeriggio. Oppure abbiamo il programma che concede un venerdì libero ogni due settimane, per poter dedicare un’intera giornata ad esigenze personali.

Credo che si tratti di una piccola rivoluzione che si riverbera nella vita concreta e quotidiana di tante persone, contribuendo a creare un clima innovativo e insieme responsivo alle necessità dei vari singoli.

E credo che questo progetto sia a modo suo esemplare: solo una vigile e sensibile attenzione al benessere di tutti i partecipanti al processo di transizione consentirà a ciascuno di trovare il suo spazio, ognuno con i suoi specifici bisogni.

In alternativa, accadrà che anziché un prezioso monile d’oro da lasciare alle prossime generazioni, quello che ci troveremo in mano alla fine della transizione sarà un inutile aggeggio di ferro rugginoso…

Prima di lasciarvi con un arrivederci al prossimo articolo, anche questa volta voglio concludere con una suggestione da condividere sul tema dell’esodo.

Si tratta di un’opera magnifica e fondativa per la nostra cultura, che siamo o meno credenti: è Mosè dipinto da Rembrandt. (Tanto per ricordarci chi siamo e da dove veniamo…) 

L’opera, non l’ho mai vista dal vero, ma la sua immagine mi sembra il giusto monito per questi tempi, anche per il racconto bifronte che propone nella sua interpretazione. 

In questo dipinto, Mosè mostra le leggi di Dio  al popolo pagano, lasciando percepire il peso di tale immane compito.

La sua sensibilità umana, cristallizzata un attimo prima di scagliare a terra le tavole e ritratta magistralmente da Rembrandt, si mostra nel volto e nella prossemica in tutte le varianti di sentimenti di un uomo di fronte all’imperativo divino: dolore e fierezza, ira e compassione.

 

MOSÈ CON LE TAVOLE DELLA LEGGE

Si tratta di un dipinto a olio su tela (168,5×136,5 cm) realizzato nel 1659 dal pittore Rembrandt Harmenszoon Van Rijn ed è conservato nel Staatliche Museen di Berlino.

Mosè è raffigurato dall’artista con le tavole della Legge alzate sopra la testa. Questo atteggiamento può avere due interpretazioni, entrambe plausibili all’interno del racconto biblico

Ricevuti i Dieci Comandamenti, Mosè scese dal Sinai e trovò il Popolo di Israele in adorazione di un vitello d’oro: dinanzi a questo affronto, scagliò le Tavole per la rabbia provata, distruggendole. Nel dipinto, però, Mosè ha un’espressione che è difficile definire adirata: per questo è possibile che Rembrandt abbia inteso raffigurare il momento in cui il Patriarca mostrò le Leggi al suo popolo”.

 


CREDITS IMMAGINI di copertina 
CREDITS MOSE’
https://it.wikipedia.org/wiki/Mos%C3%A8_con_le_tavole_della_legge

CREDITS IMMAGINI:
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